La Lettura, 5 febbraio 2023
Intervista a Luis Landero - su "Pioggia sottile" (Fazi)
Tutto comincia con una proposta innocente. Almeno in apparenza. «Mamma compie 80 anni: vogliamo festeggiarla con un pranzo di famiglia?» suggerisce Gabriel alle sue due sorelle Sonia e Andrea. L’invito potrebbe risolversi con due sì, oppure due no, o anche un sì e un no. A seconda di umori e malumori. Invece è l’avvio di una tragedia. Perché non è solo questione di decidere la breve lista dei commensali affrontando qualche questione banale, come: ci sarà, Horacio, l’ex marito di Sonia e padre delle sue figlie? E, in tal caso, dovrà restarsene a casa invece Roberto, il nuovo compagno? No, è tutto molto più pericoloso e complicato: un magma incandescente di peccati e di omertà ribolle sotto la crosta dei tiepidi rapporti formali fra congiunti di una famiglia di Madrid.
L’appello di Gabriel alle sorelle, per niente un’occasione di perdono e di pace, innesca piuttosto una catena di telefonate sempre più drammatiche all’unico, incolpevole parafulmine della tempesta sommersa che tormenta la famiglia dalla morte del padre, nel 1980. Tocca infatti ad Aurora, quieta moglie di Gabriel, ascoltare e scoprire la lunga catena di risentimenti, gelosie e ingiustizie, soprusi e incomprensioni che per decenni hanno alimentato il fuoco silenzioso dell’astio, se non dell’odio puro, tra i suoi parenti acquisiti. Perché proprio Aurora? Perché è la confidente ideale di quel fiume di «parole e parole pronunciate sempre a voce bassa e in tono adirato e sofferente». È la vittima predestinata.
Pioggia sottile, dall’originale spagnolo Lluvia fina, pubblicato da Fazi Editore, con la traduzione di Giulia Zavagna, e in libreria da martedì 7 febbraio, è l’undicesimo romanzo, e il terzo a uscire anche in Italia, di Luis Landero, 74 anni, professore in pensione (all’Accademia di Arte drammatica e all’Università Complutense di Madrid) e rivelazione letteraria nel 1989 con Giochi tardivi (Feltrinelli, 1991).
È vero che per «Pioggia sottile» s’è ispirato a un fatto realmente accaduto?
«Era solo una notizia di cinque righe sul giornale, non un fatto di cronaca clamoroso. La verità è che i temi delle storie dormono dentro di noi. Diceva Proust che lo scrittore non ha bisogno di inventare una storia, perché già esiste in lui. Quella notizia non fu l’ispirazione, ma il detonatore che risvegliò memorie di esperienze famigliari mie e altrui. Lessi che una famiglia si era riunita dopo molti anni per celebrare qualcosa, scoppiò una lite che finì con due morti e due feriti. Così abbandonai un altro progetto cui stavo lavorando, perché mi era apparso evidente che quello era l’embrione di una storia di passioni addormentate, di conti in sospeso. Qualcosa che tutti, in un modo o nell’altro, conosciamo».
Fortunatamente non tutti i pranzi di famiglia finiscono così male.
«Certo, ma quando si arriva ai 40 o 50 anni, si comincia a fare il bilancio della propria esistenza e capita che molti sogni non si siano realizzati. Allora si cercano i colpevoli e, di solito, li si individua in famiglia: i genitori, molto spesso, sono ritenuti responsabili dei fallimenti dei figli. Anche se, a quel punto, i ricordi non coincidono quasi mai. I fratelli ricordano fatti dell’infanzia in modo diverso. Questo perché la memoria si costruisce in base ai propri interessi. Ecco perché ho iniziato scrivendo che le storie non sono innocenti. Le parole non sono innocenti».
È un caso che il romanzo sia stato scritto nel 2017, uno degli anni più critici per l’unità della Spagna, quando la crisi tra il governo centrale di Madrid e la Generalitat della Catalogna è sfociata nel referendum, nel proclama secessionista, negli scontri, negli arresti, e il Paese è stato sul punto di spaccarsi?
«Nell’estate del 2017 il mio romanzo era già costruito e, in ottobre, quando culminò il Procés degli indipendentisti io smisi di scrivere per seguire gli avvenimenti come molti spagnoli. Non ci sono nel mio libro parallelismi o simbologie, ma è vero che anche la Spagna e — perché no? — l’Europa intera possono essere viste come famiglie litigiose, dilaniate dai risentimenti, dalle interpretazioni del passato storico molto divergenti, dalle ingiurie reciproche».
Chi è e che ruolo riveste Aurora, la moglie di Gabriel, in questa rancorosa famiglia immaginaria?
«È una santa laica. Conosciamo tutti una persona così: è quella capace di ascoltare senza giudicare e che alla fine assolve, come un prete nel confessionale. Una persona che non parla mai di sé stessa ma sta a sentire tutti, senza riferire ad altri. Una persona che cerca di comprendere le ragioni di ciascuno, perché ogni punto di vista porta un pezzetto di verità e tutti hanno le loro ragioni. Aurora ha anche il ruolo di narratrice, perché nulla si racconta da una sola prospettiva. Senza di lei il romanzo non sarebbe potuto esistere».
Poveretta, è il personaggio con il compito più pesante.
«Sì, è duro farsi carico di segreti e demoni altrui. Io non sono uno psicologo né un sociologo. Racconto semplicemente storie. Osservo con pena questa pioggia sottile, goccia a goccia, il dia a dia di Aurora che, come un animale da soma, è gravata di un peso sempre maggiore».
«Quanto più si vive più si soffre» è la convinzione della madre ottantenne, l’improbabile festeggiata, che ha amareggiato la vita dei figli con le sue paure e il suo pessimismo. Perché?
«Perché vede una colpa nella felicità: se sei felice, stai attento, perché il castigo si avvicina. Non era una convinzione così rara nella società di una volta, soprattutto tra i più poveri, condannati a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, a trascorrere la vita in una valle di lacrime. Quando li sente ridere, la madre dice ai figli: ridete, ridete, presto la pagherete. Li mette in guardia, superstiziosa: i pianti li sente Dio e le risate il diavolo. Penso che tutto ciò abbia a che fare con una rigida educazione cattolica. Ma ci sono altri motivi di risentimento verso la madre».
La smaccata preferenza per Gabriel, l’unico figlio maschio?
«Per questo, ho attinto alla mia esperienza. Ho tre sorelle e in famiglia le femmine non contavano. Era il maschio quello che doveva studiare, il depositario di tutte le ambizioni. Sono nato in un paesino dell’Estremadura e mio padre, contadino, aveva sognato di fare l’avvocato: parlava bene, era estroverso e divertente, ma non era riuscito a canalizzare queste qualità. Così trasferì la famiglia a Madrid perché voleva che io studiassi per realizzare il suo desiderio incompiuto. Non aveva progetti invece sulle figlie, oltre a un buon matrimonio. Quasi inconsciamente, questo fatto influisce su ciò che scrivo».
Che cosa intende quando dice che «le parole non sono innocenti»?
«Tutti siamo narratori. Vogliamo vivere e raccontare quello che abbiamo vissuto. Ma raccontandolo, lo modifichiamo. Desdemona è una donna onesta, ma nel racconto di Otello diventa una puttana. Le parole cambiano la realtà».