Domenica, 5 febbraio 2023
Da "L’olocausto prima di Hitler. 1918-1921. I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei" di Jeffrey Veidlinger (Rizzoli)
Lo sterminio di oltre centomila ebrei all’indomani della Grande Guerra è oggi in larga parte dimenticato, superato dagli orrori dell’Olocausto. È sorprendente che non compaia nei libri di testo, all’interno dei musei e nella memoria collettiva. Tuttavia, i pogrom del 1918-1921 contribuiscono a spiegare in che modo la successiva ondata di violenza antisemita fosse diventata possibile. Gli storici hanno cercato spiegazioni all’Olocausto nell’antigiudaismo teologico cristiano, nelle teorie razziali del XIX secolo, nell’invidia sociale, nel conflitto economico, nelle ideologie totalitarie, nelle politiche governative che stigmatizzavano gli ebrei e nei vuoti di potere creati dal crollo statale. Ma di rado hanno fatto risalire le radici dell’Olocausto alla violenza genocida perpetrata contro gli ebrei nella stessa regione in cui la «soluzione finale» avrebbe avuto inizio di lì a soli due decenni.
Il motivo principale di questa omissione è stato un’attenzione particolare alla persecuzione degli ebrei in Germania, dove la violenza antisemita nei decenni precedenti all’ascesa di Hitler al potere era stata un evento particolarmente raro, e ai campi di sterminio nazisti nella Polonia occupata, dove la burocrazia tedesca modernizzò e intensificò i metodi di uccisione. Perfino le fucilazioni sistematiche in Ucraina venivano viste come del tutto diverse dal tipo di esplosioni localizzate di violenza caratteristiche dei pogrom. In breve, i pogrom sembravano cimeli di un’epoca passata. Ma nel corso degli ultimi decenni, gli storici hanno finito per riconoscere che nelle regioni dell’Unione Sovietica occupate dai tedeschi, le uccisioni erano motivate soprattutto dall’ostilità verso il bolscevismo e dalla percepita preminenza degli ebrei in quel movimento, i medesimi fattori che avevano scatenato i pogrom del 1918-1921.
Analisi dettagliate dei massacri avvenuti in Ucraina e Polonia nel 1941 hanno anch’esse rivelato le modalità complesse in cui instabilità politica, stratificazione sociale ed etnica e dinamiche di gruppo sono riuscite a trasformare «uomini comuni» e «vicini di casa» in assassini. Questi studi hanno ampliato la nostra ripartizione delle responsabilità, includendo non solo leader isolati come Hitler, filosofie astratte quali il fascismo e vaste organizzazioni impersonali come il partito nazista, ma anche la gente comune che prendeva decisioni a livello locale.
Ci hanno ricordato che circa un terzo delle vittime dell’Olocausto furono uccise a distanza ravvicinata, vicino alle loro case, con la collaborazione di persone che conoscevano, prima ancora che gran parte dei campi di sterminio entrassero in funzione nel 1942. Infatti, i sopravvissuti a questi massacri li definivano «pogrom», collegando la propria esperienza a un modello noto. Al tempo stesso, un’analisi più approfondita dei pogrom del 1918- 1921 mostra come non si sia trattato solo di sommosse etniche messe in atto da cittadini e contadini furiosi, ma anche di azioni militari perpetrate da soldati addestrati.
Quanto è accaduto agli ebrei in Ucraina durante la Seconda guerra mondiale, dunque, ha radici in ciò che era accaduto agli ebrei nella stessa regione appena due decenni prima. I pogrom legittimarono la violenza contro gli ebrei come reazione accettabile agli eccessi del bolscevismo: la requisizione forzata dei beni di proprietà privata, la guerra alla religione, gli arresti e le esecuzioni degli oppositori politici. L’incessante esposizione agli spargimenti di sangue durante quel periodo bellico di formazione e consolidamento dello Stato aveva assuefatto la popolazione alla barbarie e alla brutalità. Quando arrivarono, carichi di odio antibolscevico e ideologia antisemita, i tedeschi trovarono un terreno di caccia vecchio di decenni, dove l’uccisione di massa di ebrei innocenti era impressa nella memoria collettiva, dove l’inimmaginabile era già diventato realtà.
Come il demografo Jacob Lestschinsky ammonì alla vigilia dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, il «patrimonio di atrocità» lasciato dagli «orrori ucraini» del 1918-1921 «non si era ancora del tutto rimarginato». La continua presenza di ebrei rappresentava il costante promemoria del trauma di quell’epoca, dei crimini che la gente del posto aveva commesso contro di loro e la loro proprietà, e delle terribili ripercussioni di quelle azioni.
Il genocidio nazi-tedesco, con la sua portata senza precedenti e il raccapricciante tributo di vite umane, offriva la prospettiva di una sorta di assoluzione, l’opportunità di eliminare la prova delle atrocità passate e relativizzare i peccati della generazione precedente, di consentire ai pogrom di essere dimenticati in mezzo a una malvagità ancora più grande. Come ha detto il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton in occasione di una visita a Kigali, dove ha ammesso il proprio fallimento nell’impedire il genocidio ruandese del 1994: «Ogni massacro affretta quello successivo, poiché il valore della vita umana è svilito e la violenza diventa tollerata, l’inimmaginabile diventa più ammissibile».
Gran parte dell’Ucraina un tempo rientrava nella Confederazione polacco-lituana, una repubblica multinazionale osannata come «paradiso per gli ebrei». Nel XVII e XVIII secolo, tuttavia, questa confederazione fu smembrata dalle potenze confinanti. Le pianure e le ampie steppe che si estendono dal fiume Zbruch verso est, attraversando il bacino del Dnepr fino al Donets, e dal Mar Nero a sud fino alle paludi del Pripyat a nord, furono accorpate alla Russia zarista, diventando le province di Volinia, Katerynoslav, Kiev, Podolia, Poltava e Chernihiv. L’area a ovest dello Zbruch, comprese le propaggini dei Carpazi, divenne la provincia austriaca della Galizia. All’inizio del XX secolo, in queste terre abitavano quasi tre milioni di ebrei. Circa il dodici per cento della popolazione totale, convivevano con contadini ucraini, burocrati russi e nobiltà polacca sulla base di un rapporto di vantaggio reciproco, per quanto teso.
Gli ebrei rappresentavano il sottoproletariato e si differenziavano dai loro vicini per la pratica religiosa, la lingua, il modo di vestire, i nomi, le occupazioni e per le centinaia di editti discriminatori imposti da una serie di zar nelle terre sotto il dominio russo. Il più famigerato era rappresentato dalle leggi di residenza che vincolavano gran parte degli ebrei alla «Zona di residenza» nelle province occidentali dell’impero russo e al regno di Polonia, anch’esso controllato dalla Russia.