Domenicale, 5 febbraio 2023
Storia del Principe di Machiavelli
«Il Principe» di Machiavelli – l’opera più letta, discussa, ammirata e odiata dell’intera filosofia italiana – è composta di sole 28.500 parole: per fare qualche esempio, nella Critica della ragione pura di Kant di parole ce ne sono 196mila, nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 190mila e nel memorabilmente breve Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein 45mila.
Non solo, però, Il Principe è molto breve: diversamente della gran parte delle maggiori opere filosofiche, infatti, nacque anche per caso e la sua gestazione fu assai rapida, per una lunga serie di coincidenze. Se nel 1512 non fosse caduta la Repubblica fiorentina, Machiavelli avrebbe continuato a fare il segretario e il diplomatico, visitando papi, re e imperatori (attività cui era ben lieto di dedicare le sue migliori energie); se nel febbraio 1513 non fosse stato arrestato e torturato, con l’accusa di aver partecipato a una congiura contro i Medici, non sarebbe caduto in grande discredito presso la potente dinastia appena tornata al potere; e se poco dopo Giovanni de’ Medici non fosse stato eletto papa, e non ne fosse seguita la rituale amnistia, molto probabilmente Niccolò avrebbe continuato a marcire in carcere. Alcuni protagonisti della Firenze repubblicana, però, come il Cancelliere Marcello Adriani, per meriti culturali riuscirono a salvarsi dall’epurazione medicea; e così, dal suo esilio dell’Albergaccio, anche Machiavelli si industriò per riaccreditarsi presso i nuovi regnanti e tornare a esercitare la sua vera passione: quella della vita politica attiva.
Per questo si gettò nella stesura di un trattatello, il De principatibus (il titolo italiano apparve solo nel 1532, con la prima edizione a stampa), che dedicò a Lorenzo di Piero de’ Medici, nipote del Magnifico, il quale nel capitolo finale dell’opera veniva esplicitamente esortato a liberare l’Italia dai “barbari”. E, nel candidarsi a consigliere dei nuovi signori di Firenze, Machiavelli si appellava alla sua «esperienza delle cose moderne», dovuta soprattutto alla sua intensa attività diplomatica, e all’ottima conoscenza della storia politica, antica e moderna.
L’intento autopromozionale del Principe è chiarito in una lettera scritta il 10 dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la corte papale (e dunque in posizione cruciale per mediare con il neoinsediato Leone X, capo della dinastia medicea). Scrive dunque Niccolò: «Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso». E poi – preoccupato di prevenire l’accusa di inaffidabilità, legata al suo passato repubblicano – aggiunge: «della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla». A leggere queste righe, però, viene in mente il perturbante capitolo XVIII del Principe, ove si sostiene che, per raggiungere i propri obiettivi, il principe deve saper venir meno alla parola data: «si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini». E dunque – avrebbe potuto chiedersi un lettore coevo del Principe - se persino ai principi si richiede di tradire le promesse, perché non dovrebbe poterlo fare un politico di lungo corso (quale Machiavelli era) alla ricerca di nuova collocazione con un regime potenzialmente ostile?
Niccolò risponde subito a questa possibile obiezione: «chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia». E anche questa osservazione trova perfetta rispondenza nel Principe, ove si legge che nessuno «può deviare da quello a che la natura lo inclina». Insomma, considerandone le grandi competenze e la connaturata lealtà, Lorenzo il giovane poteva senz’altro fidarsi di lui, mettendolo alla prova con qualche incarico di prestigio. Purtroppo, però, Lorenzo rimase del tutto indifferente all’omaggio del Principe e forse nemmeno lo lesse. E così Machiavelli, al di là di qualche incarico poco più che simbolico, non giocò più alcun ruolo nell’agone politico.
Se però mancò alla sua funzione primaria, Il Principe si impose come opera fondativa del pensiero politico moderno, generando centinaia di interpretazioni e vaste discussioni tra generazioni di interpreti – al punto che si potrebbe pensare che su quest’opera non si può più dire nulla di veramente nuovo e interessante. Che le cose però non stiano così è mostrato dalla nuova magnifica edizione di quest’opera curata da Gabriele Pedullà per l’editore Donzelli. Con le 200 pagine dell’illuminante introduzione e le 170mila parole delle eruditissime note (sei volte il testo commentato!), questa edizione – che è già in via di traduzione per l’editore anglo-americano Verso – si propone come ineludibile punto di riferimento degli studi machiavelliani per i decenni a venire.
Con competenze sterminate, Pedullà sviscera Il Principe da vari punti di vista. In prospettiva genetica, oltre ad analizzare il contesto storico in cui l’opera nacque e a richiamare (spesso in contrasto con le interpretazioni più comuni) un gran numero di classici greci e romani che ispirarono Machiavelli, Pedullà rintraccia con rigore le radici quattrocentesche di molte delle discussioni del Principe, spaziando dalla filosofia al diritto, dall’arte alla letteratura. Dal punto di vista dell’analisi formale, poi, questa edizione offre contributi di grande originalità, notando come nell’opera si intreccino ragionamenti controfattuali, strutture argomentative ad albero (secondo la grande lezione porfiriana) e “a quadrato” (ottenute intrecciando le potenziali combinazioni di due coppie di concetti opposti tra loro). Dal punto dell’analisi del contenuto, inoltre, questa edizione presenta interpretazioni innovative riguardo molti dei nodi cruciali del Principe, dal conflitto tra morale e politica alla valenza delle interazioni tra principe, popolo e aristocrazia, dal tema del libero arbitrio a quello della tirannide, dal ruolo del diritto in politica a quello dell’auspicata milizia cittadina.
Pedullà non pretende però di scrivere sine ira et studio. Molto critico sia dell’interpretazione «reazionaria» di Leo Strauss (che vede in Machiavelli il cinico sovvertitore dell’aurea tradizione politica classica) sia di quella «repubblicana» di impronta moderata, proposta da Skinner e Viroli, Pedullà è – con John McCormick e Filippo Del Lucchese – uno dei protagonisti dell’interpretazione radicale e populistica di Machiavelli (in un senso politicamente alto del termine “populismo”, che non ha niente di salviniano o pentastellare).
E continua così l’enorme discussione su uno dei più brevi capolavori della filosofia