Domenicale, 5 febbraio 2023
L’austerità negli anni Venti del Novecento servì alla ristrutturazione capitalistica
Il perno concettuale intorno al quale ruota questo libro è che l’uso dell’austerità in politica economica abbia una storia assai più profonda di quanto si è portati a credere osservando la fortuna di tale pratica nell’età neoliberale. Per provare questa tesi, l’autrice sposta l’attenzione agli anni Venti del XX secolo istituendo uno studio comparato tra la Gran Bretagna e l’Italia.
Il suo ragionamento si fonda sull’idea che l’uso dell’austerità abbia rafforzato politiche di ristrutturazione capitalista e di contenimento delle istanze dei lavoratori emerse durante la Prima guerra mondiale. Tali politiche ebbero successo nel puntellare il traballante edificio capitalista, che aveva conosciuto una crisi nelle sue basi pratiche e teoriche negli anni del conflitto. Anche nel caso esaminato da questo libro, quella guerra si conferma come la prima guerra-mondo con le conseguenze che ciò comportò in termini di mobilitazione e di coinvolgimento economico, tecnico e morale. La riconversione all’economia di pace procedette a tappe forzate verso un ripristino delle modalità precedenti, accentuando i tratti regressivi e il controllo delle nuove élites tecnocratiche sull’elaborazione delle politiche economiche.
Questa tesi è avvalorata da un intelligente lavoro sulle fonti, che qui dialogano con l’evoluzione teorica proposta da alcuni grandi economisti – basti citare Maffeo Pantaleoni – che orientarono decisive scelte politiche del decennio precedente la Grande crisi. Va detto che un certo numero di opere hanno descritto la resistenza che i vecchi regimi attuarono verso l’affermazione delle forze sociali emerse durante il conflitto: il coinvolgimento dei lavoratori, il maturare delle consapevolezze e la modernizzazione dei processi produttivi costituirono ovunque il segnale di una rivoluzione sociale imminente. Fu proprio in uno dei due Paesi esaminati da questo libro, l’Italia, che lo sviluppo economico si innestò in una trasformazione sociale destabilizzante e in una concreta guerra civile. Come giustamente osservato, la conversione in economia bellica dell’Italia ha un valore di sicuro interesse non solo per la dimensione della trasformazione industriale ma per la profonda evoluzione sociale che comportò. Nel 1919 il Paese che aveva iniziato il suo decollo solo negli anni 90 del XIX secolo aveva assunto, quantomeno nel Nord-ovest, la fisionomia di una potenza industriale. Questa realtà era stata possibile grazie all’impegno sistematico dello Stato nell’organizzazione del lavoro e della produzione, e il successo di tale efficientamento forzoso suggeriva che i fondamenti teorici del capitalismo classico – con la sua retorica del mercato capace di autoregolarsi – sarebbero potuti essere ridiscussi dalle fondamenta. Questo processo fu bloccato in entrambi i paesi studiati da Mattei, e sebbene gli esiti italiani sfociassero nella controrivoluzione fascista, dal punto di vista dell’organizzazione e del contenimento delle istanze sociali emerse durante la guerra, il risultato non fu diverso in Gran Bretagna.
Occorre capire perché una restaurazione reazionaria del capitalismo ottocentesco sia stata teoricamente sostenuta con tanta determinazione e abbia in conclusione portato a un uso del paradigma dell’austerità divenuto un mantra condiviso dalle élites transnazionali. Un buon punto di partenza è indicato dall’autrice nella Conferenza di Genova del 1922. Fu quello, in effetti, un tentativo di riorganizzazione dell’economia globale con l’adozione d’indicazioni per la creazione di un “nuovo sistema” per mettere in sicurezza il capitalismo. Non solo, fu anche uno dei luoghi in cui la tecnocrazia di un assetto internazionale che aveva temporaneamente espulso la Germania, affilava le armi per stendere un cordone sanitario economico attorno alle due realtà che potevano costituire un pericolo per il capitalismo stesso: la Germania, appunto, e, soprattutto l’Unione Sovietica. Si può dire che l’opposizione che in quella sede fu chiarissima contro ogni possibilità di derogare alle ferree regole del capitalismo classico, derivasse dall’emersione di un modello alternativo che in quella fase era ancora avvolto dalla mitologia della rivoluzione globale del proletariato. La reazione a ogni possibile inclinazione che guardasse a quella realtà come opportunità organizzativa era individuata da tutto l’establishment europeo uscito vittorioso dalla Guerra, e fu decisa politicamente, ma sostenuta teoricamente da schiere di economisti che assunsero ruoli chiave nell’elaborazione di una politica di austerità che divenne dogma condiviso da tutto l’Occidente. Quella che quarant’anni fa Charles Maier ha definito, e magistralmente descritto, come “la rifondazione dell’Europa borghese” affonda proprio nella precisa volontà di restaurare il “mondo di ieri”, e cioè ripristinare il circolo dell’economia capitalista garantendone le basi e mettendo in sicurezza gli assiomi dottrinari su cui essa si fonda: centralità dell’imprenditore privato, garanzia dell’accumulazione privata, contenimento delle istanze dei lavoratori soprattutto nell’organizzazione del processo produttivo. Negli anni Venti, rimettere la casa in ordine significava garantire (o meglio imporre) il ritorno alla disciplina aurea del secolo precedente, e diffondere l’idea che il rigore di bilancio fosse il prerequisito per far funzionare un sistema al centro del quale doveva posizionarsi una banca centrale esemplata sul modello della Bank of England.
Ciò che si deve osservare sulla fortuna storica dell’austerità come metodo politico, prima ancora che economico, è che sebbene abbia conosciuto una serie particolarmente lunga di fallimenti, essa rimane il riferimento per garantire il capitalismo occidentale, e questo anche quando l’alternativa è infine evaporata. Confrontarsi con la genealogia di quest’idea così contraddittoriamente fortunata è una delle occasioni che questo libro coerente e appassionato offre.
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Operazione austerità
Clara Mattei
Einaudi, pagg. 421, € 34