Tuttolibri, 4 febbraio 2023
Biografia di Giulio Antonio Borgese
«Un uomo che non sia addirittura un egoista o un esteta non può da una settimana vivere che in rapporto alle immense e terribili cose che avvengono». Così si esprimeva il critico, scrittore, giornalista Giuseppe Antonio Borgese il 6 agosto 1914 in una lettera al direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini. Erano giorni esplosivi: il 28 luglio l’Austria aveva aperto il conflitto con la Serbia, a sostegno della quale Nicola II aveva mobilitato le sue truppe, il che provocò la dichiarazione di guerra tedesca alla Russia, il che scatenò la reazione della Francia che si schierò con la Russia. Una catena inarrestabile.
Borgese è una figura centrale della prima metà del Novecento, destinata però a rimanere alquanto emarginata dal canone diffuso, estraneo com’era a correnti e a gruppi, e dunque nel complesso difficilmente classificabile. Ora una parte significativa della vicenda intellettuale di Borgese viene documentata da un volume, curato da Andrea Moroni e prefato da Mario Isnenghi per la Fondazione del Corriere della Sera, che raccoglie le lettere alla direzione e una scelta di articoli apparsi sul quotidiano tra il 1914 e il 1921 (Giuseppe Antonio Borgese e il «Corriere della Sera». 1914-1921, pp. 668, e 60). Al tempo della concitata lettera ad Albertini, Borgese aveva 31 anni (era nato a Polizzi Generosa, Palermo, nel 1882), ed era già uno dei critici letterari più apprezzati d’Italia: una decina d’anni prima Croce aveva elogiato un suo scritto (la reciproca presa di distanza sarebbe arrivata presto). Fondatore e collaboratore instancabile di riviste, scrisse per «Il Mattino» e, in qualità di inviato in Germania, per «La Stampa» di Torino diretta da Alfredo Frassati. La rottura con quest’ultimo, nel 1912, lo avrebbe spinto verso il «Corriere», concorrente del giolittiano giornale torinese. Da poligrafo inquieto, Borgese si mostrò sempre pronto a rimettersi in discussione, fu crociano e poi precoce anticrociano, dannunziano pentito, nazionalista e interventista deluso, contrario al frammentismo vociano e alle avanguardie, aperto alle esperienze straniere, sensibile verso una letteratura che puntasse sulla dimensione morale e umana. Insegnò letteratura tedesca ed estetica a Torino, poi a Roma e a Milano. Dopo una cauta adesione al regime, si rifiutò di firmare il giuramento di fedeltà, e dal 1931 optò per l’esilio oltreoceano. In California, intrapresa una brillante carriera universitaria, si sarebbe unito in seconde nozze con la figlia di Thomas Mann, Elizabeth (dopo il divorzio da Maria Freschi).
Il libro propone dunque un doppio sguardo sul Borgese privato (le lettere) e sul Borgese in pubblico (gli articoli), mostrando gli esiti del retrobottega epistolare sul giornale. Moroni annota con precisione le lettere, offrendo in calce una notevole guida storica di fatti e personalità citati en passant: ed è una straordinaria lettura parallela di vite piccole e grandi e di relazioni altrimenti inafferrabili, ma ricche e sorprendenti (l’ambasciatore a Berlino Bollati, il giornalista socialista Crespi, Colonna di Cesarò, nipote di Sonnino, diplomatici e imprenditori tedeschi, artisti, funzionari, firme tanto venerate allora quanto oggi sepolte nell’oblio). Va detto che la collaborazione con il quotidiano di via Solferino sarebbe proseguita ben oltre il 1925, anno in cui Albertini fu allontanato dalla direzione per volontà del regime; interrotta durante il soggiorno americano, avrebbe avuto una coda nel dopoguerra, quando Borgese fece ritorno in Italia. Come segnala Moroni, Leonardo Sciascia attribuì all’attività di Borgese una precipua «vocazione al giornalismo». Una considerazione forse riduttiva se si pensa alla narrativa, che ebbe il suo culmine nel romanzo Rubè, del 1921. Sorta di autocritica del protagonista, l’avvocato Filippo Rubè, intellettuale siciliano piccolo-borghese e parziale controfigura dell’autore, sulla ideale foga all’impegno frustrata da una sorta di solipsismo e ignavia paralizzante (quasi un’indifferenza pre-Moravia). Fatto sta che Borgese oltre alla notevole intelligenza di critico militante (gli si devono le «scoperte» dello stesso Moravia, di Soldati, di Piovene), nutrì una particolare aspirazione e una non celata ambizione per la politica: e Rubè è il risultato del disincanto che ne seguì.
La fase più convinta e controversa della sua passione civile coincide con gli anni incandescenti testimoniati dal volume, dove tutto viene continuamente rimesso in gioco dai rivolgimenti della Grande guerra, dalle alleanze e dalla tortuosa strategia italiana, infine dai sospetti e dalle intimidazioni di cui fu bersaglio lo stesso Borgese a cose fatte, bollato dal fascismo irruente come un «rinunciatario» magari complice della famosa «vittoria mutilata».
Il percorso dell’editorialista «ibrido e transnazionale» esibito da Albertini in prima pagina, viene illustrato da Isnenghi in tre tappe. Un’attività di pubblicista in gran parte intrecciata con i ruoli ufficiali o non ufficiali che Borgese svolse nel campo della propaganda all’estero e poi nell’ambito delle trattative con i popoli slavi sui confini italiani. Le due anime e le due funzioni, il giornalista e il diplomatico-militare, non mancarono di creargli conflitti di interesse e di coscienza. Nella prima fase, che si estende fino all’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915), inviava i suoi pezzi interventisti da Roma, dove svolgeva anche attività accademica. Eccolo, Borgese, esprimersi in polemica contro l’attendismo neutralista del governo: la grande firma, «incline a filosofeggiare in grande» (Isnenghi), era chiamata ad alzare il livello del discorso, anche in virtù della sua cultura filogermanica (innamorato come fu di Schiller e del romanticismo Sturm und Drang) pur senza risparmiarsi affondi di taglio geopolitico. Sempre rigidamente in linea con il «giornale-partito» che ambiva a influenzare le decisioni del governo.
La collaborazione, che sembra svolgersi in grande sintonia, doveva fare i conti con il carattere aspro di Borgese, che nel cercare sempre il compromesso, come scrive Isnenghi, «vuole entrare comunque a pieno titolo, e non certo come suppellettile di arredo rispetto al discorso pubblico che conta e in cui lui stesso si impone di contare». Ne sentiamo tutto l’afflato nella prosa ferma fino all’enfasi con cui si rivolge al suo direttore alla fine di agosto 1914, prefigurando: «L’annunzio di una azione giornalistica, che potrà potentemente servire a salvare l’Italia dallo sfacelo. Giacché non mi pare dubbio che allo sfacelo ci porterebbe la neutralità (...): avviliti e moralmente immiseriti resteremmo…».
È con la seconda fase, quando anche l’Italia si trova nel fuoco della guerra, che comincia a evidenziarsi qualche crepa nel sodalizio, quando il «militare non combattente, desideroso di combattere con le armi della conoscenza» viene incaricato di partecipare a missioni di diplomazia segreta dal Comando supremo e dal ministero della Marina. È il memoriale la sua specialità. Ne stenderà per tutta la vita, osserva Isnenghi: il che implica una sorta di «promiscuità», facendo del rapporto con il giornale una mera copertura. Fatto sta che Borgese, nel luglio 1916, chiede ad Albertini di intercedere in alto loco perché gli venga assegnata una missione statale in Olanda in combinazione con una corrispondenza per il «Corriere». Il progetto non si realizzerà. Il fatto che i suoi articoli d’ora innanzi appaiono senza firma significa non una caduta di prestigio ma il contrario: Borgese è diventato quasi un direttore-ombra che affianca Albertini. Ma un giornale con troppe primedonne ambiziose non si dà, tanto più se si tratta di personalità dal fiuto eccezionale. Un mese prima di Caporetto, Borgese segnala al «caro amico» quanto l’Italia, percorrendola, gli appaia come «una materia psicologica infiammabile», aggiungendo che «anche un piccolo incidente potrebbe suscitare larghe vampate». È vero che il giornalista è «abituato a volare alto», invocando il nome e il mito Mazzini nel momento di massima incertezza sul futuro del Paese, ma non si può negare che la sua sensibilità sia capace di andare oltre. Arrivati al 1918, cioè alla terza fase, i suoi interventi si faranno più rari. La sua aspirazione a diventare l’uomo del «Corriere» nelle trattative di pace verrà delusa. Scriverà a un collaboratore stretto di Albertini il 3 ottobre 1921: «In generale l’atteggiamento del direttore verso di me non è più quello di una volta, e il mio compito al “Corriere” non è di quelli che possano bene espletarsi quando sia venuta a mancare l’intimità». Nei giornali succede spesso di passare di colpo dall’intimità all’estraneità.