La Stampa, 4 febbraio 2023
Mia Ceran lascia la tv per i figli
Un po’ ancora mi vergogno mentre lo scrivo: «Non ce la faccio». Come suona male, nel 2023, che una donna lasci un lavoro, per giunta un lavoro da «privilegiata» come è quello della conduttrice televisiva, perché non riesce a star dietro ai figli, quelli a casa e quelli che verranno, e agli altri impegni lavorativi presi. Mi sono sentita di chiedere scusa nel dirlo. Scusa ad una squadra, ad un pubblico a casa, scusa all’azienda per cui lavoro, perché lavorerò solo fino al nono mese di gravidanza e non tornerò in fretta e furia in onda tutti i giorni dopo aver partorito come pensavo di fare, ma mi fermerò per qualche mese. Per la prima volta in molti anni di lavoro abbandono un progetto prima di averlo portato a compimento e riconosco il mio limite. Qualche settimana fa ho raccontato nel podcast che curo (The Essential) la scelta di Jacinda Ardern, premier neozelandese molto amata in Patria e fuori (tra le donne più giovani al mondo ad aver ricoperto quel ruolo, una delle pochissime ad aver dato alla luce un figlio durante il suo mandato) che dopo 5 anni di onorato servizio ha detto: «Non ho più benzina nel mio serbatoio», e lo ha detto con un candore che non siamo abituati ad associare alle persone che arrivano in posizioni apicali nel proprio lavoro, specie in politica. La scelta di parlare con schiettezza di burnout, di voler preferire per un certo periodo un impegno privato ad uno pubblico saranno forse l’eredità più grande che Ardern lascerà ai posteri, ma soprattutto a tutte quelle donne che sentono il dovere di essere perennemente performanti su tutti i fronti. Nel mio piccolo, senza voler paragonare i miei sforzi a quelli di una donna che guida uno Stato, ho sentito anche io che era arrivato il momento della sincerità, e ho voluto sfruttare il privilegio di chi si può permettere di scalare le marce, e non fingere davanti al mondo che l’arrivo di un altro figlio non sia un impegno enorme. Per ammettere che il carico si era fatto troppo pesante ho dovuto vincere la vergogna, il timore di deludere chi pensava di me che avrei fatto tutto, e anche con il sorriso. Eppure nessuno dei miei capi, dei miei colleghi e dei miei collaboratori si è mostrato meno che comprensivo. A casa sono rimasti invece un po’ più stupiti: è un talento comune a molte donne, quello di saper dissimulare la fatica. Ma la persona che più temevo di deludere, ho scoperto ero io. E la vergogna che in parte devo ancora vincere è tutta mia, così come la paura di vanificare molti anni di impegno e di dedizione totale al mio lavoro. Ho conosciuto donne che appartengono alla generazione che per prima ha conquistato il proprio posto nel mondo del lavoro, con la fatica di chi ha rotto il cosiddetto tetto di cristallo e che ha lottato per mantenere la posizione conquistata a volte anche sacrificando la famiglia. Alla nuova generazione di donne invece sembra che venga chiesto di essere la miglior lavoratrice possibile e al contempo la più performante delle madri. Esiste un’iconografia per social fatta di video, foto, reel che mostra solo donne sorridenti con bambini cresciuti con attenzione e massima consapevolezza, dove ogni bisogno delle creature è soddisfatto «a richiesta», tutto questo spesso mentre la madre risponde senza perdere un colpo sul lavoro e non mostra alcun cenno di fatica. Un po’ come i corpi irraggiungibili e i filtri ingannevoli, anche questo racconto andrebbe rivisto e macchiato di sincerità. Con le occhiaie ben coperte dal truccatore e i capelli in piega a mascherare i segni di notti insonni e di pranzi consumati in sei minuti davanti al computer, ho forse contribuito a diffondere un’immagine poco aderente alla realtà, ed è anche per questo che ho scelto di congedarmi per qualche tempo raccontando la mia esperienza. Perché il «serbatoio» di ogni donna è diverso così come il suo limite, ma il primo passo è riconoscerlo e non mentire a se stesse. Arrivederci, torno presto (spero).