La Stampa, 4 febbraio 2023
Per The Economist l’economia italiana non sta tanto bene
Il gruppo è quelle delle flawed democracies, democrazie «imperfette», un gradino sotto le full democracies. Il giudizio è più che sufficiente: 7,69. La posizione in classifica un po’ meno rassicurante: trentaquattresimi. Per dire: il Paese più grande e stabile politicamente che c’è – gli Stati Uniti – stanno al trentesimo posto per via dell’assalto organizzato mesi fa da un gruppo di esagitati che misero a soqquadro il Congresso. Poi però a scorrere la classifica si scopre che la Germania è quattordicesima, la Francia e la Spagna sono tornate nel gruppo di testa dei Paesi promossi a pieni voti, e che noi stiamo un gradino sotto Malta e due sotto il Botswana. Sia come sia, la notizia è che quest’anno l’Italia ha perso tre posizioni nel Democracy Index elaborato dall’Economist Intelligence Unit, un gruppo di studiosi che vende analisi molto accurate sui grandi temi globali. Perché? Proviamo a entrare nel dettaglio.
Su alcuni temi la democrazia italiana sta alla grande. Il pluralismo, ad esempio: totalizziamo un rotondo 9,58, meglio degli Stati Uniti, al livello di Francia, Germania e Gran Bretagna. Siamo indietro su altri indicatori: cultura politica (7,5), libertà civili (7,35), partecipazione politica (7,22). E poi c’è il voto peggiore di tutti, quello che ci abbassa la media: 6,79, relativo al funzionamento del governo. Dagli torto, a quelli dell’Economist Unit. Che te ne fai di vivere in un Paese in cui puoi urlare quel che credi in piazza se poi la burocrazia è a dir poco carente? Che democrazia è quella in cui – per fare un esempio politicamente rilevante – non si riesce a spendere mai più della metà dei fondi generosamente offerti dall’Unione europea? Che democrazia è quella in cui un cittadino – per venire alle cronache di questi giorni – è costretto a fare file chilometriche al freddo per ottenere il passaporto?
Ciò detto, il rapporto dedica all’Italia (come alla virtuosissima Svezia) un passaggio politicamente impegnativo. Gli analisti prima la toccano piano: «La presenza in Parlamento di partiti di destra non è in sé dannosa per la democrazia». E ci mancherebbe. «Se formazioni così forti nell’elettorato fossero escluse verrebbe vissuto come un gesto antidemocratico». E però «i partiti di estrema destra potrebbero minare la democrazia con legislazioni illiberali, o attraverso la censura dei media». Il passaggio dedicato al governo Meloni fa capire che il lavoro di analisi è piuttosto fresco: «La coalizione di destra guidata da Fratelli d’Italia ha vinto le elezioni con ampio margine. L’Italia ora ha il governo più a destra dalla fine della seconda guerra mondiale. Giorgia Meloni ha inizialmente adottato una linea moderata, motivata in parte dal desiderio di ottenere i fondi europei a disposizione. Ma – scrive il rapporto – il suo mandato elettorale era per una linea più radicale e questo potrebbe spingerla indietro sotto la pressione dei partner di governo». Nomi non ce ne sono, ma pare evidente che gli indiziati qui sono Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Non è chiaro – perché il rapporto non lo precisa – se i dubbi riguardino l’opaca fedeltà atlantica dell’ex premier e del leader leghista. La probabilità che si tratti proprio di questo lo testimoniano però il titolo del rapporto, una lunga analisi sul crollo delle istituzioni russe e l’involuzione autoritaria imposta da Vladimir Putin. Frontline democracy and the Battle for Ukraine, si legge nel frontespizio delle 84 pagine fitte di numeri.
E allora a vantaggio dei curiosi che non avranno il tempo o la voglia di scorrere tutto il rapporto, occorre prendere nota del fatto che il Paese di Volodymyr Zelensky in quanto a democrazia non raggiunge ancora la sufficienza (totalizza 5,42) e si classifica solo all’ottantasettesimo posto, un gradino sotto il 2021. La Russia è crollata dal 124esimo posto al 146esimo, ancora dieci sopra la Cina di Xi Jinping. Riescono a fare di peggio solo (per citare i più grossi) il Congo, la Siria, e l’Afghanistan, ultimo in assoluto. La testa della classifica invece la si può immaginare: prima la Norvegia, poi Nuova Zelanda, Islanda, Svezia e la Finlandia. Il quarto posto in classifica della civilissima Stoccolma nonostante il governo di destra-destra può far sperare a Meloni che i pregiudizi non avranno la meglio.