Corriere della Sera, 4 febbraio 2023
Intervista a Luciano Chiarugi
Cavallo Pazzo oggi sarebbe definito un attaccante esterno. All’epoca Luciano Chiarugi, da poco 76enne, era un’ala che si allargava su tutto il fronte offensivo, veloce, tecnico, abile con i piedi, con scarso senso dell’equilibrio. Cioè, se toccato, spesso cadeva. Di lì il termine che poco benevolmente fu coniato all’epoca di “chiarugismo”.
«Questa nomea mi fu affibbiata da un fischietto. Ma le voglio spiegare. Io ero rapido e abbastanza bravo nel dribbling. Entravo in area, il difensore mi toccava e perdevo l’equilibrio. Può anche essere che abbia accentuato le cadute ma se alla fine ho giocato fino a 39 anni significa che in quel mondo ci potevo stare. E ho avuto una signora carriera».
Impossibile dargli torto dopo che Chiarugi, campione d’Italia con la Fiorentina nel 1968, tre volte convocato in Nazionale e con una carriera fra Milan, Napoli, Sampdoria e Bologna, si definisce «un giocatore che cercava solo lo spettacolo».
Quindi non è vero che era un simulatore?
«Io come gli altri calciatori ero sotto il giudizio degli arbitri. Se fossi stato davvero il cascatore, come tutti mi accusavano di essere, avrei da solo messo a repentaglio la mia carriera. Invece ho giocato in grandi club».
In effetti con il Milan vinse la Coppa Italia e la Coppa delle Coppe nel 1973 segnando pure in finale a Salonicco la rete decisiva. Come ha resistito davanti a quelle accuse?
«Con la tenacia sono stato in grado di far ricredere tutti. Erano solo dicerie quelle sul mio conto. Altrimenti il mio successo sarebbe finito a Firenze, non trova?».
Ammetterà che nel calcio di allora era più semplice ingannare l’arbitro.
«Diciamo che c’è chi ha furbizia calcistica e chi non ce l’ha. Sostenevano che fossi un tuffatore ma ai miei tempi c’erano marcature a uomo che mica ti permettevano tante sceneggiate. I difensori ti si appiccicavano addosso, gli attaccanti di allora andavano tutelati di più. Invece a me fu affibbiata un’etichetta difficile poi da togliere».
Secondo lei perché nel rugby c’è una cultura diversa rispetto al calcio?
«È uno sport con uno spirito proprio differente, guardi cosa succede a fine partita con il terzo tempo. C’è una lealtà sportiva di fondo, nel calcio invece si cerca con ogni mezzo di ottenere un rigore o una punizione. Peraltro le due discipline non sono paragonabili anche per altri aspetti».
Cioè?
«I rugbisti si sottopongono a sacrifici ben maggiori guadagnando cifre infinitamente inferiori. Nel calcio ci sono interessi economici tali da indurre alla ricerca della vittoria con ogni mezzo».
Lei che a torto o a ragione è stato considerato il principe dei cascatori lanci un messaggio ai simulatori.
«Intanto con la Var e la tecnologia che esiste oggi ogni azione viene vista e vivisezionata in mille occasioni e da cento angolazioni diverse. Insomma per chi finge non dovrebbe esserci scampo. E poi così facendo si violano i valori che sono alla base dello sport. Perché, diciamocelo, io se venivo toccato ci mettevo del mio e accentuavo la caduta ma solo se prima c’era stato un fallo del difensore».