www.repubblica.it, 3 febbraio 2023
Chiara Valerio intervista Teresa Cremisi
Teresa Cremisi è nata ad Alessandra d’Egitto, prima che il Canale di Suez fosse nazionalizzato e accelerasse quel processo di trasformazione del Mediterraneo da luogo di incontro a confine, le cui conseguenze abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.
A un certo punto della sua vita si trasferisce con i genitori da Alessandria a Milano, completa gli studi alle Marcelline, comincia a lavorare nell’editoria italiana, studia Lingue e letterature straniere all’università. Alla fine degli anni Ottanta lascia Milano per Parigi, dove dirige prima Gallimard e poi Flammarion. È attualmente, o è stata in passato, nei consigli d’amministrazione di importanti istituzioni francesi e italiane (penso alla Biblioteca nazionale di Francia, al Centro nazionale per la cinematografia, al Teatro La Fenice di Venezia), oggi è presidente della casa editrice Adelphi. Dal 2018 tiene una rubrica settimanale su Le Journal du Dimanche. Nei mesi scorsi sono stati ripubblicati il suo romanzo La Triomphante (Adelphi, traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala) e Il processo di condanna di Giovanna d’Arco da lei curato e tradotto (nel 1977) per Marsilio.
Titoli di giornale selezionati da Teresa Cremisi per il suo Strangolata con un portacenere, Bompiani, 1974
Chroniques du désordre (Folio Gallimard) è una delle sue rubriche settimanali. Il primo libro che ha scritto, Strangolata con un portacenere (Bompiani, 1974), è una raccolta di titoli di giornale ritagliati dal ’70 al ’73. Sia nelle rubriche che nei ritagli rivela un certo gusto per l’assurdo e l’inaspettato.
«Non ho mai avuto ben chiari i fili che legano le cose l’una all’altra».
Non è detto ci siano.
«Infatti Strangolata con un portacenere più che un libro è la dimostrazione che ci si può divertire in un ufficio... all’epoca era molto tedioso».
In che senso?
«Ero impiegata a fare enciclopedie».
Di che tipo?
«Enciclopediette. Si chiamavano Garzantine».
Ah.
«Sì, erano famose. Rivedevo schede di geografi, linguisti, storici, gastronomi, le mettevo a misura giusta facendo uno sforzo che direi letterario alternando, in maniera naturale, un’attività che non è data a tutti».
Ritagliare i giornali?
«Avere occasione di ritagliarli. Per una ragione che ancora mi è oscura ricevevamo tutti i giornali, e devo dire che, a parte le grandi notizie, nelle pagine interne si sviluppava una specie di sarabanda di storie una più strana dell’altra, il gatto nascosto sotto l’altare in chiesa, la donna sfuggita a quattro assassinii... E la cosa più divertente erano i titoli dati dai direttori che forse non leggevano nemmeno gli articoli, prendevano tre o quattro elementi e sunteggiavano. Sunteggiate, le notizie assumevano una dimensione di puro Ionesco».
La divertivano?
«Sì, ed evidentemente ero la sola perché nessuno, mi pare, protestava per la stranezza di quei titoli. Mentre facevo il mio lavoro, leggevo e ritagliavo, e dopo quattro anni mi sono ritrovata con buste intere di fogli di giornale. Ho buttato via quelli che alla rilettura erano meno impressionanti e ho cominciato a immaginare di farne un libro».
Una storia?
«Chiesi consiglio a Umberto Eco che all’epoca non aveva la fama ottenuta negli anni, ma era un grande semiologo ed era editore da Bompiani. Si entusiasmò e disse: “Non c’è bisogno di scrivere niente, ti faccio io la quarta di copertina e basta”. E così nacque Strangolata con un portacenere che non ebbe alcun successo».
Un libro di culto, come molti nella varia Bompiani di quegli anni, penso a Come farsi una cultura mostruosa di Paolo Villaggio, del 1972.
«Dice?».
Torniamo ai titoli che lei ed Eco trovavate divertenti, ma quasi nessun altro. Cos’è che lei trova divertente?
«Ne approfitto per dirle che Chroniques du désordre sarà tradotto in italiano col titolo di Cronache dal disordine e uscirà in marzo per La Nave di Teseo. Credo che il riso, almeno per me, nasca tra cose incompatibili che cozzano. Un certo perbenismo con una certa stravaganza con un fatto di cronaca, per esempio. Non è facile trovare ogni settimana qualcosa da scrivere».
Titoli di giornale selezionati da Teresa Cremisi per il suo Strangolata con un portacenere, Bompiani, 1974
Prossima rubrica?
«Ancora non so. Ma, anche dopo 5 anni, trovo sempre qualcosa. La vita, se uno la guarda con una certa curiosità e una certa immaginazione, è maledettamente interessante. Per suscitare il riso bisogna un pochino forzare le cose, altrimenti il riso si disfa».
Quindi?
«Ci pensi, non c’è niente di più comico di ciò che ci capita nei momenti che dovrebbero essere tragici. Certi autori, come Kundera, Yasmina Reza o Kafka, riescono a far ridere ai funerali. Mi divertono cose di questo genere».
Come ci si esercita a trasformare il tragico in comico?
«Non credo ci si eserciti. Non credo. Credo che si nasca così: incapaci di prendere del tutto sul serio la propria esistenza. E per fare questo bisogna essere ben coscienti del tragico. Non c’è ironia o comicità se uno non è cosciente che domani può esserci il passo falso che ci travolge e fa che tutte queste cose che abbiamo in testa, ricordi, amori, persone, tutto quello che possediamo non ha più nessun valore semplicemente perché non ci sei più. E gli oggetti ti sopravvivono».
Cosa sopravvive?
«Gli oggetti, le creazioni dello spirito, e le brutture che gli uomini infliggono a questa terra».
E i moralisti francesi che nelle sue cronache dicono qualcosa anche a più di quattrocento anni dalla morte?
«Idem, idem, sopravvivono, perché riescono a riassumere... le loro frasi sono più elaborate dei titoli di giornali che ho raccolto, ma riescono a riassumere in 18, 22 parole una situazione drammatica che però ha spesso un risvolto comico».
Il Mediterraneo ne La Triomphante è mitico, avventuroso, dice di commerci e compromessi, religioni e contraddizioni, incroci e complessità.
«Il Mediterraneo non è un mare che divide, è un mare che unisce. Ci sono cose che uniscono profondamente, se non lo ha letto, prenda Braudel, lì c’è tutto. Il clima che è più o meno lo stesso, il mare, abbastanza grande per non essere un lago ma non abbastanza per essere un Oceano. Il Mediterraneo ha la forma di un elefante volante, la proboscide verso Gibilterra, la coda verso Suez e le ali sono il Mar Nero. È abbastanza grande da fare un po’ paura, ma non tanto da non consentire per millenni un andirivieni continuo. L’altro giorno ho trovato qui a Venezia una locandina del 1951 con le navi in partenza nel mese di settembre. Il 9 ce n’erano due, una per Barcellona, l’altra per Beirut, il 10 quattro, e così via per tutto il mese. Un andirivieni continuo».
Oggi ci sono gli aerei.
«Non è esattamente la stessa cosa perché l’elemento mare non c’è più e le persone hanno dimenticato di “sentire” il Mediterraneo. Questa civiltà fatta da commerci intensi, litigate intense, scambi intellettuali intensi è sfumata... Sono nata ad Alessandria, tutti i giorni si potevano vedere navi che partivano per Venezia, Genova, Marsiglia... il Mediterraneo, per millenni, prima del consolidamento degli Stati nazionali, è stato tante civiltà che si sono accumulate una sopra l’altra. I venti che soffiavano dalla stessa parte erano chiamati con decine di nomi disparati secondo le regioni; i pesci, sempre gli stessi, indicati da centinaia di nomignoli dialettali, alcuni provenienti dall’origine dell’umanità. Civiltà che non si negano, ma si assimilano. Nordafricana, ebraica, romana, greca, berbera, islamica, ittita, ispanica, slava, egizia, etrusca, egea, civiltà accatastate che si sono digerite l’un l’altra. Quando sono nata ho avuto, quasi subito, l’impressione che questa catasta così complicata si stesse sgretolando definitivamente».
La complessità impone mediazione. Eppure le agenzie di viaggio sono sparite e quelle immobiliari pure. C’è l’home banking. Si va su Internet, si cerca, si trova, oppure no. L’editoria è un mestiere dove la mediazione ha ancora una funzione. Esiste l’autopubblicazione, ma è diverso: gli editori sono le agenzie di viaggio che ce l’hanno fatta.
«L’editore è un mestiere che è difficile definire, tant’è vero che io non riuscivo nemmeno con i miei figli. Una volta, cercando di fare a gara con i suoi amici che dicevano “mia madre è chirurgo”, “mia madre è avvocato”, mio figlio ha provato a spremersi le meningi e alla fine ha detto: “mia madre parla al telefono”. Tramite, filtro e agente lo sono anche i galleristi, i producer musicali; l’editoria ha qualcosa in più perché non crea solo il contatto tra l’artista e il luogo dove verrà esposto, ma anche un oggetto. E questo oggetto ha qualcosa di eterno. Ha qualcosa dell’eterno come la perfezione di una tazza: può deformare il manico, allargarla, ma una tazza è sempre una tazza e un libro è sempre un libro».
Ritagliare giornali, selezionare episodi e scriverne settimanalmente, curare libri e autori, la tazza è sempre una tazza e il libro è sempre il libro e ha le pagine. Lei toglie dal flusso, dà ordine a ciò che pesca nell’insensatezza del mondo? Perché ha fatto l’editore?
«Lei è sulla strada sbagliata, non sono diventata editore per mettere ordine nell’insensatezza del mondo, ma perché le uniche persone che mi affascinano sono gli artisti e gli scienziati, e siccome non mi sentivo assolutamente capace di essere un artista o un grande scienziato, né Proust né Eratostene, ho pensato di vivere nel luogo dove potevo incontrare artisti e scienziati, la mia è una scelta di umiltà».
Non le sembra che mettersi al confronto con Proust ed Eratostene sia il contrario dell’umiltà?
«Se l’immagina uno che con un bastone, un’ombra e un pozzo misura la circonferenza della Terra? Non mi sono data pace dall’età di 11 anni per la disperazione di non essere così intelligente».
Ha mai pensato che l’editoria è una forma d’arte e lei questa forma d’arte l’ha praticata e la pratica ai massimi livelli?
«Assolutamente no».
L’Italia ad aprile sarà ospite d’Onore al Festival du livre a Parigi. Lei ha fatto l’editore in Francia per 35 anni. Differenze tra editoria italiana ed editoria francese?
«Una differenza macroscopica. La popolazione è più o meno la stessa, ma l’editoria francese pesa più di 4 miliardi di euro e quella italiana a stento due. Significa più del doppio, che vuol dire poi la possibilità di fare dei tascabili a 6, 7, 8 euro, di avere cioè una cultura del tascabile, per cui è molto più facile, molto più piacevole essere editore in Francia che in Italia. In compenso, e non so spiegarmi perché, l’editoria italiana permette nicchie di alta cultura, e ha un pubblico sapiente, tra le 6 e le 15mila persone, che possono comprare libri di saggistica di studio, scienze, di altissimo livello. In Francia libri così hanno tirature di 2000 copie, qui trovano 6-7-8mila lettori e vuol dire che siamo ancora al Rinascimento e con molti centri culturali e un gran numero di aspiranti eruditi. C’è una differenza tra élite e popolo che in Francia è più attenuata».
Come ha trovato l’Italia dopo il periodo francese?
«Non che mi fossi allontanata del tutto. Ho sempre fatto degli andirivieni. La lunga parentesi che non so come definire, forse berlusconiana, mi è sembrata stranamente umiliante per il paese di Pico della Mirandola, di Machiavelli e dell’Ariosto. Una specie di cosa farsesca post-felliniana. Forse non ha provocato danni perché mi sembra che il Paese non ne abbia troppo sofferto, forse questo Paese sopporta tutto».
Le ragazze in armi, Giovanna d’Arco e il quadro di Vittore Carpaccio. Un giovane uomo che ne La Triomphante, secondo la madre, somiglia alla protagonista. C’è differenza tra essere uomini o donne quando ci sono imprese da compiere?
«Penso che essere uomo sia infinitamente più facile. La lista delle cose che erano impedite a una ragazza che aveva 15 anni a metà degli anni Sessanta era tale da scoraggiare chiunque avesse voglia di una vita originale e libera. Statisticamente non c’è ragione per cui ci siano meno geni tra le donne che tra gli uomini, eppure storicamente la differenza è schiacciante. Purtroppo, significa che le società hanno calpestato i geni femminili. Questo non poteva che disperarmi e oggi non può che dispiacermi».
Cosa pensa delle discussioni sull’inclusività della lingua?
«Nelle università statunitensi si costruiscono i bagni per chi non si sente né maschio né femmina. Nell’altra metà del pianeta gli uomini osano coprire le donne di veli neri, costringerle a lavori massacranti, ammazzarle di gravidanze, quando non le appendono a un cappio o non le lapidano. Cose che ci sono sempre state, ma si sono acuite. Io ho conosciuto bene il Medio Oriente, la vita delle donne era già infernale ma non così, è terribilmente peggiorata. Da un lato, dunque, si corre dietro alla lingua per farsi perdonare di avere impedito la nascita di geni femminili e dall’altro si riduce a mera sopravvivenza la popolazione femminile. Di solito la lingua segue, farla precedere è una forzatura. La lingua deve seguire. Allora lasciate che le bambine studino scienze, possano diventare grandi artiste e poi cambierà la lingua. Il contrario è una garbata illusione».
Esiste una mistica della maternità?
«È una vera avventura quella data alle donne. L’idea di vedere questo essere che era te stesso e non lo sarà mai più, beh è folgorante. Io capisco benissimo che una neo-madre si spaventi, non lo voglia più, voglia rimandarlo indietro, rimetterlo nel limbo. Questa incredibile novità fa paura, ma le capisco. Se invece tutto va bene è una folgorazione. Io, nonostante le fatiche, nonostante la voglia di buttarli dalla finestra qualche volta, etc. li ho molto amati e mi hanno portato, credo, una vera conoscenza del mondo. Detto questo bisogna essere preparati, quando si è madri, dopo aver schiacciato sull’acceleratore della maternità, a togliere il piede dall’acceleratore e ad avere una vita normale».
Lei smitizza tutto, ha una capacità naturale ad accettare il mondo come dato e a tentare di interpretarlo, perché non ha studiato scienze visto che è nata nella stessa città di Eratostene?
«Perché forse tra gli scienziati e gli artisti – avevo una madre artista – ho preferito stare tra gli artisti. Perché essere editore è fantastico, le ho detto che facevo schede per le enciclopedie, però nell’atrio vedevo arrivare Pasolini e devo dire che ricordo questi incontri con una certa emozione, ero contenta di essere lì».
Valentino Bompiani diceva che “lo scrittore scrive, il grafico compone la pagina e l’editore ci mette l’amore”. Che ne pensa lei?
«Mi sembra esagerato (ride, ndr), io non ci mettevo l’amore, ci mettevo la capacità a tenere insieme commercio e spirito. Diderot ha scritto a suo tempo una lettera in cui spiegava che cos’è l’editoria e diceva che questo mestiere così strano è una cerniera tra lo spirito e il commercio. Senza commercio non c’è editoria e il commercio ha regole che dipendono dal tempo e dal luogo in cui si pubblica, e senza spirito è inutile fare editoria perché si fanno cose molto evanescenti. Detto questo, essere editore di testi popolari non è meno degno e non è più facile di essere editore di alto livello culturale. Io avrei potuto essere un editore popolare, se ne avessi avuto le capacità: non sempre capisco cosa sia popolare o non popolare».
E invece una cosa che le è sembrata difficile nella vita?
«In realtà quasi tutto mi è sembrato abbastanza facile, devo aver avuto fortuna. Quello che è veramente difficile è cumulare funzioni diverse e parlare linguaggi diversi. Mi spiego: rivolgersi nello stesso giorno a un figlio, a una madre, a un fiscalista, a un giornalista, a un amministratore delegato, a un artista, a un amico d’infanzia… questo camaleontismo, che personalmente trovo estenuante, è forse un aspetto arduo della vita per tutti».
Anni fa l’ho intervistata per L’isola deserta di Radio3 e ha portato con sé Shakespeare, in particolare i drammi storici.
«Credo di avere un rapporto con la storia molto forte, non mi dimentico mai i fatti storici che ho letto, imparato. Se lei mi racconta un aneddoto, io poi vado a controllare, e a quel punto elaboro dentro di me un teatrino, una storia. I protagonisti li vedo muoversi».
Qual è il suo rapporto col tempo che passa?
«Proficuo. Mi ha liberato dai sensi di colpa, continui. Da una impressione di inadeguatezza e illegittimità; ogni volta che mi proponevano un aumento di stipendio, un avanzamento professionale, un benefit di qualche tipo, mi affrettavo a rispondere no, no, non son degna. Era ossessione, non virtù. Da questo senso di illegittimità e dalla paura di assumere ogni volta un ruolo – di cui accettavo le responsabilità intellettuali, ma non i vantaggi – mi ha liberata il tempo».
Si è mai pensata una donna bella?
«No. Assolutamente. Anzi, quando ero carina cercavo di imbruttirmi, è più facile la vita per le donne non troppo belle».
Grazie Teresa Cremisi per non aver risposto a nessuna delle mie domande.