Corriere della Sera, 3 febbraio 2023
Ritratto di Thomas Mann
Ebbene sì, ha proprio ragione John Banville quando afferma che Il Mago – la biografia romanzata di Thomas Mann firmata da Colm Tóibín (Einaudi) – «raggiunge il risultato notevole di farsi leggere come un romanzo che Thomas Mann avrebbe potuto scrivere prendendo spunto dalla propria vita». Fondate su una imponente bibliografia, sono cinquecento pagine fitte, che il lettore divora, nelle quali non è raccontata soltanto la vita e la folgorante carriera letteraria del grande scrittore tedesco, ma anche quella disastrata della sua famiglia, e quella tragica della Germania nella prima metà del Novecento.
Un romanzo bellissimo. Comincia, ancora alla fine del secolo precedente, a Lubecca, con l’odore forte delle granaglie e delle merci smistate nei magazzini della ditta di famiglia, il profumo umido del vento che spira sui moli dal mar Baltico, la musica di Wagner. Quando suo padre, il rispettato senatore Mann, muore nell’albergo di Travemünde lasciando scritto nel testamento che l’azienda va venduta, e sua madre con i figli minori si trasferisce a Monaco, Thomas rimane solo a concludere, malvolentieri, i suoi studi nell’austera città mercantile del nord. Malvolentieri, perché la sua mente viaggia altrove: è attratto, come racconterà in Tonio Kröger, dal sedicenne compagno di classe, Armin Martens, al quale dedica poesie d’amore; nella casa del dottor Timpe, in cui è a pensione, scambia audaci carezze notturne col figlio Willri; ascoltando il preludio del Lohengrin sente che un varco si schiude verso l’alto, lasciando trasparire lo spirito, un potere che travalica il potere terreno.
Per lui, il senatore aveva immaginato un lavoro solido, di tipo impiegatizio. Ma di nuovo, a Monaco, quando raggiunge sua madre e la famiglia, e viene assunto nelle Assicurazioni Spinell, Thomas pensa a tutt’altro. Scrive racconti; si confonde volentieri ai ragazzi baldanzosi e trasandati dell’allegro quartiere di Schwabing; viene licenziato e, insieme a Heinrich, parte per l’Italia, prima a Napoli poi a Palestrina, dove il seme nascosto della decadenza fa germinare l’intuizione dei Buddenbrook. Quando esce, i cittadini di Lubecca lo considerano un insulto; ma lui, appena venticinquenne, sa di aver compiuto un’impresa e, al teatro dell’Opera, segue con lo sguardo una ragazza riservata, quasi triste, con degli incredibili occhi neri: è Katia Pringsheim, figlia di un aristocratico, straricco professore ebreo. Lei e il suo gemello Klaus hanno letto il romanzo, e vorrebbero conoscerlo. Thomas va a cena dai Pringsheim, in questa casa sfarzosa piena di quadri, tappeti e mobili preziosi, nella quale è spesso ospite Gustav Mahler, e, nonostante il parere negativo dell’amico Paul Ehrenberg che gli ricorda dove sempre vanno a posarsi i suoi occhi, non certo sui volti femminili, decide di sposarla.
La prima notte di nozze, con l’infinita distanza che si spalanca fra i due corpi, finora inesplorati, nel letto della lussuosa stanza prenotata dai Pringsheim al Baur au Lac di Zurigo è, nella sua durezza, terrificante.
Come è terrificante il susseguirsi delle morti naturali e dei suicidi, la catena degli scandali sessuali, l’uso delle droghe che corrode la famiglia borghese. Moriranno suicide le due sorelle di Thomas. Katia dà alla luce Erika, Klaus, Golo e Monika. Suo marito è già famoso. Un giorno Mahler lo invita ad assistere alle prove dell’Ottava sinfonia. Il momento misterioso in cui, prima di cominciare, solleva le mani per ottenere il silenzio assoluto, è sconvolgente: contiene, insieme, la forza erotica e quella spirituale. Dopo, il direttore è esausto. Nei caffè di Monaco i giovinastri screanzati scommettono su chi sarà il primo che riuscirà a baciarlo. Mahler, però, muore. Arrivando a Venezia dal mare, Thomas pensa di resuscitarlo in un racconto. Sa già come lo descriverà: basso, la testa grande rispetto al corpo, i capelli pettinati all’indietro, la fronte imperscrutabile, lo sguardo sempre pronto a volgersi all’interno. Si chiamerà Gustav Aschenbach. Poi, sulla spiaggia dell’Hotel des Bains, al Lido, vede il ragazzino biondo con gli occhi azzurri: il Tadzio della Morte a Venezia, e come Aschenbach, se ne innamora.
Quando viene pubblicato, i critici non danno risalto al tema (temuto) dell’omosessualità, bensì a quello del rapporto fra la bellezza eterna e la morte. Giustamente, perché dopo la decadenza, saranno la morte e il tempo a ossessionare il protagonisti della Montagna magica e del Doctor Faustus, che di Thomas Mann sono le opere maggiori. Katia, intanto, ha scoperto di avere una macchia al polmone; va a curarsi a Davos. Dopo qualche settimana, Thomas la raggiunge. «Lei si è fatto visitare?» lo scruta appena arrivato il medico di turno. «Se non lo ha fatto, è meglio che lo faccia». Nel buio del gabinetto radiografico – in una scena pazzesca, degna di un mistero eleusino, che il lettori troveranno simile nella Montagna magica e non potranno dimenticare mai – il nuovo ospite del sanatorio vede il proprio corpo come sarà nella tomba, e trema.
Nascono Elisabeth, la quinta figlia e Michael, il sesto. La Germania, umiliata dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale, è nel mare in tempesta. A Monaco scoppia una rivoluzione di stampo socialista dalla quale, però, Mann si dissocia. Crede nella democrazia, ma la sua «speranza è che arrivi da una fede tedesca nell’umanità». A conferma, nel 1929, gli viene assegnato il Premio Nobel: il premio alla «cultura borghese, cosmopolita, equilibrata, che i nazisti vorrebbero distruggere». L’anno seguente, il partito di Hitler ottiene otto milioni di voti. A Berlino, nella Beethovensaal gremita, Thomas descrive il nazismo come «un colosso dai piedi d’argilla». Un contestatore si alza e gli dà del bugiardo e nemico del popolo. Altri lo seguono. Tanto che, anche grazie all’aiuto di Bruno Walter, il direttore d’orchestra che conosce i meandri della sala, i due Mann, Katia e Thomas, sono costretti a scappare. A Monaco, Erika e Klaus sono terrorizzati e lo scuotono: «Ogni cosa è perduta. Siamo spacciati dal primo all’ultimo. Distruggeranno tutto. Libri, quadri, tutto quanto. Non si salverà nessuno». Ma il Mago – così chiamavano il padre fin da bambini – ha paura di esporsi poiché teme che i suoi libri vengano tolti dalle librerie.
Quando nel 1933 viene incendiato il Reichstag, i Mann sono in Svizzera. La Germania è preclusa. Ad Amsterdam, Klaus pubblica una rivista antinazista, «Die Sammlung», mettendo il nome del padre fra i futuri collaboratori. Con un telegramma che provoca clamore nella stampa tedesca di Praga e di Vienna, sempre per la preoccupazione dei suoi libri, Thomas si dissocia. E ora, con l’inizio della guerra, e la fuga in America, la sterminata biografia che fin qui abbiamo letto come un romanzo manniano, misurato dai suoi tempi scanditi, dalla sua perfetta prosa neoclassica, ha un cambio di passo, si allarga negli spazi sconosciuti del Nuovo Mondo, diventa un romanzo incalzato dalla politica, dalle difficoltà dell’esilio, dalle notizie tragiche che dall’Europa insanguinata arrivano sull’altra sponda dell’oceano, nelle quiete università che, insieme a Einstein, continuano a colmare di onori il più famoso tedesco vivente; a Washington, dove non solo i potentissimi proprietari del «Washington Post» aiutano Thomas e lo gestiscono come un oggetto di proprietà, ma anche il presidente Roosevelt lo invita alla Casa Bianca; sulla soglia dell’impenetrabile studio nel quale il grande scrittore legge Goethe, Heine e scrive ogni giorno.
Un romanzo che racconta la Storia, con tutti i problemi del momento (a cominciare dalla problematica decisione che riguarda gli Stati Uniti, se entrare o no in guerra); la rivelazione dei campi di concentramento; la resistenza di Stalingrado; Pearl Harbor; le città rase al suolo; e per forza deve coinvolgere Thomas Mann. Il quale, finalmente, vincendo le ultime resistenze, in un discorso a Chicago pronuncia le parole che tutti attendono: «Sono qui non solo come scrittore e esule rifugiato dalla dittatura più efferata che la storia ha mai conosciuto, sono qui come uomo e parlo alle donne e agli uomini qui presenti della dignità che condividiamo, della luce interiore che splende in ciascuno di noi, dei diritti per i quali combattiamo e ci spettano. Credo che questi diritti verranno restituiti alla Germania. I nazisti non possono durare. Non devono durare. Non dureranno».
Poi, la guerra finisce. L’uomo chiuso in se stesso, tormentato dalle continue tentazioni omosessuali, prigioniero della sua fama e del suo egoismo, è a Stoccolma per una conferenza quando gli arriva la notizia che a Cannes Klaus si è ucciso. Ma lui non va ai funerali. L’ultimo nato, Michael, gli scrive: «Il mondo ti è grato dell’attenzione totale che hai dedicato ai tuoi libri, ma noi, i tuoi figli, non proviamo nessuna gratitudine per te, né per nostra madre. È difficile credere che siete rimasti nel vostro lussuoso albergo mentre mio fratello veniva seppellito». Lui mette la lettera sotto un libro, sul comodino. Quindi, la distrugge.