la Repubblica, 3 febbraio 2023
La stagione arancione
Ricordo bene la stagione arancione, la stagione politica che una decina di anni fa, nel nome della conquista di diversi comuni italiani da parte di una sinistra dalla chiara ispirazione civica, vedeva Milano inaugurare una sua nuova stagione con l’impresa di Giuliano Pisapia di raggiungere Palazzo Marino, con la sua gente in piazza Duomo a far festa in un allestimento tanto improvvisato quanto autentico, il colore, l’allegria, l’energia. La miccia fu la vittoria su Letizia Moratti ma sembrava detonare una nuova voglia di partecipazione.
Quella che da allora chiamiamo inclusione è diventata buona amministrazione, e non solo a Milano ma in tanti grandi e meno grandi comuni della regione Lombardia, un marchio virtuoso di una classe dirigente giovane che ha saputo ridare un diverso protagonismo agli attori che fanno la città, senza distinzione, senza gerarchia, per liberare il piacere ed il gusto di mettersi in gioco ed esserci, cambiare assieme le cose, quasi utilizzando la politica e l’amministrazione della propria città come pretesto per socializzare fragilità e soluzioni, dubbi e ambizioni, sguardi ed impeti.
Mi chiedo come mai questa energia non possa finalmentecontagiare l’intera Regione e segnare il nostro futuro dopo una sperimentazione di segno opposto durata quasi trent’anni, davvero tanto, forse troppo.
Ricordo bene le aspettative di quella stagione e vedo cosa ha prodotto attorno a noi soprattutto in ambito locale: città più belle, cultura protagonista, diritti al centro, gusto di stare assieme.
Poi non è il paese di Bengodi, come nella migliore tradizione di certa sinistra si dice di più di quello che si fa o non si sa dire bene ciò che si è fatto. Ad esempio il problema casa è ancora, e forse ancora di più, un enorme problema soprattutto per i più giovani; il problema del lavoro, e della qualità del lavoro, emerge prepotentemente con pratiche di lavoro povero o discriminante sulle quali è oltremodo urgente intervenire. Ma servono energie nuove, serve l’impeto visionario di chi ha intenzione di mettersi a disposizione e di far sentire i risultati di un luogo le conquiste di una comunità.
Oggi una buona parte di quella energia, che allora aveva creato così tante aspettative per il territorio di Milano, si ritrova nelle idee al centro del programma del centro sinistra per la prossima amministrazione della Regione Lombardia. Feudo leghista da tempo immemore, ponte economico finanziario e imprenditoriale del paese verso l’Europa, la Lombardia si appresta ad una tornata elettorale storica, nella quale io credo non sia solo in gioco la continuità o la discontinuità di una serie di blocchi di interessi che rischiano, dopo così tanto tempo, di perdere il contatto con la realtà e di asserragliarsi in una nefasta pratica di alimentazione del proprio potere. Ma penso sia in gioco un principio di coesione sociale e territoriale che potrebbe rendere il nostro territorio un esempio per le sfide che l’Europa sarà chiamataa percorrere in quella che si preannuncia come “l’era delle catastrofi”.
Pandemia, Guerra, povertà diffusa, sfiducia non si superano chiudendosi e facendo primeggiare interessi corporativi e politiche reazionarie ma serve avere in mente un progetto concreto, fatto di azioni e metodo, di competenze e immaginazioni, perché nel medio termine la piaga contemporanea delle diseguaglianze venga affrontata e poi estirpata, garantendo sanità, istruzione, mobilità, accesso alla conoscenza, servizi essenziali alla persona e opportunità di realizzazione e di emancipazione in misura eguale per tutti.
Se c’è una grande differenza tra destra e sini stra sta proprio qua: la destra inneggia a “non disturbate il manovratore” laddove lo Stato è il disturbo e il privato il manovratore, la sinistra è consapevole, o dovrebbe esserlo, che le turbolenze vanno percorse assieme, ciascuno deve fare la sua parte e non in modo astratto e ideologico ma pragmatico e ancora una volta inclusivo, per far ritrovare a tutti, cittadini di destra e di sinistra, il senso del coraggio e le ambizioni della politica e perché “tutti” non sia uno slogan ma un’ossessione di eguaglianza e giustizia sociale, per la quale mi sembra che Majorino possa convintamente esprimere le migliori competenze.
La stessa ispirazione civica che portò Giuliano Pisapia al Comune di Milano dovrebbe riformare i progressisti italiani