La Stampa, 3 febbraio 2023
Il senso di Sciascia per la giustizia
Davvero non c’è nulla di più attuale delle riflessioni di Leonardo Sciascia in tema di giustizia, tutt’ora imprescindibili per comprendere la realtà dei tribunali che si nasconde dietro liti e polemiche finendo per rendere incomprensibile la materia a chi poi, a questa materia, spesso soccombe: il popolo.
Passione di giuristi, avvocati e giudici, ma anche di imprenditori e giornalisti, lo scrittore di Racalmuto, dalle profondità della sua Sicilia, s’interroga a lungo sul mistero del giudicare, fino ad anticipare il futuro che anche in questi giorni stiamo dibattendo nelle aule parlamentari. E ne fa sintesi nei suoi appassionanti libri che, dalla civetta mafiosa fino al rapimento di Moro, passando per Il Consiglio d’Egitto, raccontano il mistero del potere e dei suoi strumenti, tribunali inclusi. Così due avvocati penalisti, Lorenzo Zilletti, ex presidente della Camera penale di Firenze, e Salvatore Scuto, ex presidente di quella di Milano, si sono dati la briga di mettere insieme un nutrito gruppo di esegeti dello scrittore siciliano, pescando tra l’altro anche negli articoli di quello straordinario e appassionato giornalista che fu Massimo Bordin (Radio Radicale) per scrutare ancora una volta, attraverso la lente d’ingrandimento sciasciana, crepe e stato di salute di uno dei pilastri fondamentali della democrazia, la giustizia.
Il risultato è questo Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia (Ed. Leo S.Olschki), utile manuale di lettura per chiunque intenda oggi maneggiare l’incandescente materia con cognizione di causa e senza pregiudizi. Si tratta di sette letture che si segnalano per l’originalità della prospettiva con cui porgono al lettore diverse questioni. Prendiamo ad esempio una delle più recenti, l’ergastolo ostativo. Scrive Andrea Pugiotto, docente di Diritto costituzionale a Ferrara, che se è vero che in Italia non esiste più la pena di morte, «sopravvive invece la pena fino alla morte: tale è infatti l’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, cioè senza scampo e senza speranza per chi, potendolo fare, non collabora utilmente con la giustizia». Ed ecco intervenire Sciascia, che nel romanzo La Strega e il capitano (storia di un processo inquisitorio del 1617) scrive: «Il far nomi di sodali, di complici, è stato sempre dai giudici inteso come un passar dalla loro parte, come un rendersi alla giustizia e farsene, anche se tardivamente, strumento…». Questione insomma di opportunità, qualità che a Sciascia faceva appunto difetto, una vera anomalia in un Paese dove invece il senso dell’opportunità è sviluppatissimo fino a diventare spesso opportunismo.
L’attualità del pensiero di Sciascia giunge fino a noi perfino in un articolo scritto ormai nel lontanissimo 1987 (vigilia della riforma del codice di procedura penale), che sembra essere tagliato sulla vicenda processuale dell’anarchico Cospito: «Sembra inconcepibile – scrive Sciascia – a lume di diritto e di senso comune, che persone che hanno partecipato a delle azioni più dimostrative che letali restino a scontare delle pene che appaiono gravi ed esorbitanti, in confronto a quelle irrisorie inflitte agli assassini. Ma è quello che accade nel nostro beato Paese, in cui le leggi sempre più si allontanano dal diritto e la loro applicazione è suscettibile di arbitrio e tracotanza». L’articolo, guarda caso, è intitolato A futura memoria (se la memoria ha un futuro).
Gli scritti di Sciascia divengono profezia come quando, sempre nel 1987, anticipando il populismo giustizialista dell’ultimo decennio, spiega che «i cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia in un Paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa: e specialmente quando nulla di concreto si fa». Scrive Gianfranco Dioguardi, docente, saggista e imprenditore barese, che la grande seduzione del modo di pensare di Sciascia è ben palesata nelle poche, esemplari parole che scrisse proprio su questo giornale il 6 agosto del 1988: «Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è». —