ItaliaOggi, 3 febbraio 2023
Il confine tra spie e giornalisti
In Italia si discute sulle intercettazioni, sarebbero necessarie per prevenire reati, ma finiscono troppo spesso sui giornali. E, se si cita una frase fuori dal contesto, si potrebbe incriminare chiunque. Come si fa a capire se parlo per scherzo o sul serio? Il servizio segreto, il Bundesnachrichtendienst, l’ufficio federale di informazione, il Bnd, si scoccia che notizie segrete finiscano sui giornali.
Come è possibile? E dal 1990, anno della riunificazione, ha cominciato a indagare, senza giungere ovviamente ad alcun risultato concreto. È ovvio che giornalisti italiani e tedeschi pubblicano le soffiate di magistrati e agenti che lavorano per il Bnd. Informazioni quasi mai innocenti.
Il Bnd ha comunicato che è anche contrario a servirsi di giornalisti come informatori. Per un motivo di correttezza. E non ci crede nessuno. La collaborazione tra giornalisti e spie è sempre stata molto stretta. Difficile cambiare.
Ai tempi della guerra fredda, Stern rivelò che i telefoni dei corrispondenti stranieri erano controllati. Mi sentii gratificato, non indignato. Perdevano tempo per le mie chiacchiere?
Andavo spesso all’Est, dalla Ddr alla Polonia, da Praga a Mosca, ai tempi della Guerra fredda.
Nell’impero sovietico i giornalisti venivano considerati tutti spie. Per gli inviati serviva un accredito speciale, con più doveri che diritti. In tanti anni sarà stato inevitabile che sia entrato in contatto con la Stasi, la Gestapo rossa, il servizio segreto per il controllo interno della Germania comunista.
Dopo il crollo del Muro, agli inizi, anche per gli stranieri era possibile controllare gli archivi della Stasi. Non l’ho mai fatto per non deprimermi leggendo commenti poco lusinghieri sul mio conto.
Per volare a Varsavia, ero costretto ad andare da Bonn a Colonia, dove si trovava l’ambasciata polacca per chiedere il visto. L’addetto stampa era gentilissimo, mi offriva caffè e gustosi biscotti fatti in casa dalla moglie, e mi faceva domande del tipo: a chi vende armi l’Italia? A quanto so, a tutti.
Non avrei potuto confidargli segreti, neanche se lo avessi voluto. Ma ho sempre avuto un dubbio: anche le spie si arrangiano con le note spese, e se l’addetto avesse messo in conto un migliaio di zloty, non molto in Deutsche Mark, per le presunte informazioni ricevute dal suo informatore italiano?
Come avrei potuto dopo dimostrare la mia innocenza in un conflitto di interesse: avremmo l’obbligo professionale di pubblicare quel che veniamo a sapere, per uno Spion tutto dovrebbe rimanere segreto.
Se il Bnd ha comunicato di non voler servirsi di noi, ovviamente se ne è servito. Faccio male a pensar male?
Per i britannici, giornalisti e scrittori, al contrario, è un onore collaborare con i servizi segreti, per la difesa della patria: Wright or wrong, my country, giusto o sbagliato è il mio paese. Un moto che mi inquieta. Ian Fleming prima di creare James Bond, lavorò per la Royal Navy’s Intelligence, il servizio segreto della marina. Sembra che non fosse granché. Prima di lui, durante la Grande Guerra, per il Sis, il Secret Service Intelligence, lavorò Somerset Maugham, inviato a Ginevra per spiare la Germania. Se ne servì per scrivere le avventure di Mister Ashenden, un intellettuale spia tormentata.
Spia fu anche Graham Greene, che lavorò come inviato in Indocina. Scrisse The Quiet American, l’americano tranquillo, romanzo da rileggere. Il protagonista organizza attentati da attribuire ai guerriglieri comunisti.
Greene era amico di Kim Philby, l’agente del MI5, il servizio di James Bond, che faceva il doppio gioco con il Kgb, e fu costretto a fuggire in Urss. Greene andò a trovarlo a Mosca. Per il MI5 lavorò infine David Cornwell, conosciuto come John Le Carré, l’autore della Spia che venne dal freddo. Si era ispirato a Markus Wolf, anche lui scrittore, e capo del controspionaggio della Ddr. Quando era in pensione, andavamo a cena, e mi disse che quel romanzo non gli piaceva.