la Repubblica, 2 febbraio 2023
Intervista al soprano Lisette Oropesa
«Il belcanto non è solo questione d’ugola. Non si tratta di far fuochi d’artificio con la voce, ma di porgere con morbidezza una melodia, di pronunciarla come fosse poggiata su un soffice cuscino di fiato, di modellarne le parole con dinamiche e accenti variegati». Arte di cui il soprano Lisette Oropesa è regina.
Una sovrana della porta accanto estroversa, solare, poliglotta, fisico da modella ottenuto e conservato con volontà ferrea, scarpe da ginnastica sempre calzate perché nel tempo libero macina chilometri di corsa, smartphone a portata di mano che usa come un caro diario social per postare la sua quotidianità di ragazza americana, oggi 39enne, acciuffata dal mondo del melodramma. Mentre passa da un teatro all’altro — tra un paio di giorni Salisburgo, poi Parigi, dal 13 aprile alla Scala per Lucia di Lammermoordi Donizetti, dirige Riccardo Chailly — ora è soprattutto il suo secondo album a tener banco, French bel canto arias ,etichetta Pentatone.
Ancora, a quattro mesi dall’uscita, dopo lunga permanenza nella top 10 dei bestseller di Amazon per la classica, continua a portarle recensioni entusiastiche e premi.
Lisette, come ha fatto un disco di nicchia a conquistare un pubblico ampio?
«Certe cose succedono senza che se ne comprenda la ragione. Volevo registrare qualcosa di adatto alla mia voce, non un prodotto commerciale: pagine di opere francesi, seppur composte da Rossini e Donizetti, nemmeno troppo note ai melomani.
Tipo un’aria della Lucia di Lammermoor riscritta dall’autore per Parigi che non ha nulla in comune con la versione italiana eseguita abitualmente».
Cioè con quella che canterà a Milano?
«No. Alla Scala presenteremo un’altra squisitezza: la prima redazione della partitura così come ascoltata per il debutto del 1835 aNapoli».
Cos’ha di diverso, questa napoletana, dalla “Lucia” che conosciamo?
«La mia parte è più acuta e ha alcune battute in più».
Più acuta significa più difficile?
«Significa che il personaggio della donna costretta dal fratello, per ragioni di politica familiare, a rinunciare al tenore che ama per sposarne uno mai visto prima, e che poi fa fuori, suona meno oscuro.
Lucia appare più fresca, innocente, ma pure più decisa. Non soverchiata fin dal principio da un fato maligno che la sballotta come vittima passiva di un contesto maschilista. È ambientato nell’epoca di Grace Kellylo spettacolo scaligero firmato Yannis Kokkos. Avevamo iniziato a provarlo per il Sant’Ambrogio 2020, cancellato per pandemia. Poi in estate, al festival di Aix-en-Provence, farò la “Lucia” francese, tanto simile di carattere all’originale napoletana».
Lei, cresciuta in Louisiana, il francese lo masticherà dall’infanzia...
«In realtà la mia è una famiglia di immigrati cubani. Una delle miebisnonne, che ho conosciuto bene, veniva da Barcellona e in casa parlava anche in catalano. Di certo ciò che della Lousiana ha segnato la mia formazione è la contaminazione culturale visibile nell’architettura, udibile nel jazz, presente nella cucina creola e in una tradizione unica negli Stati Uniti come quella delmardi gras ,il carnevale di New Orleans. Da ragazzina mi pareva naturale una tale mescolanza di culture. È stato uno shock non ritrovarla fuori di lì».
Da ispanica ha subìto discriminazioni negli Usa?
«Mai. Ho pelle bianca, parlo inglese senza accento e i miei sono arrivati via mare. Va peggio ai latini di pellescura, che stentano con la lingua e varcano via terra confini magari fortificati con muri».
All’accademia lirica del Metropolitan di New York ha incontrato Renata Scotto, maestra in questo repertorio...
«Di un suo insegnamento ho fatto tesoro: è un affronto alla musica fiorire una melodia con ghirlande di notine aggiunte dal cantante soltanto per sfar sfoggio di bravura.
Non basta che le ornamentazioni siano belle, mi disse una volta, bisogna che siano giustificate da ragioni espressive. Perché il canto, prima che tecnica, è manifestazione di un personaggio, della sua psicologia».
Vero che dell’accademia del Met è diventata anche sostenitrice?
«Nel 2020, invitata a presentare il gala dei talenti, ho scoperto che quei ragazzi prendevano una borsa di studio dello stesso importo di quando la frequentavo io.
Quindicimila dollari vent’anni fa erano un bel gruzzolo, oggi no. Allora ho staccato un assegno così che l’accademia possa portare ciascuna borsa a ventimila dollari.
Spero sia d’esempio ad altri sovvenzionatori».
Lei spopola sui social: è espansiva di natura o li frequenta per strategia di marketing?
«Non sono il tipo di cantante d’opera che abita un mondo tutto suo. Mi piace interagire con chi mi scrive, condividere la quotidianità. Mi riprendo mentre faccio ginnastica, pensando possa ispirare gli altri vedere come l’attività fisica mi aiuta a vivere in maniera sana. Posto anche cose buffe. A Natale ho raccontato di come le mie sorelle e io, tutte noi senza figli, continuiamo a sentirci le bambine della famiglia durante le feste».