la Repubblica, 2 febbraio 2023
Intervista a Michele Padovano
Michi ha la faccia contenta, Michi è al circolo dove gioca a biliardo tra la fabbrica e l’autostrada. A Michi tutti adesso dicono “bravo, che bello, siamo felici, lo sapevamo che eri innocente”. Ma Michele Padovano, 56 anni, una Champions e uno scudetto con la Juventus, una carriera di attaccante fra Cosenza, Pisa, Napoli, Genoa, Reggiana, Crystal Palace, Metz e Como, ha dovuto aspettare 17 anni per non essere più guardato come un delinquente, come un trafficante di droga.
Quanta vita c’è, dentro 17 anni?
«Tanta, troppa. Quasi tutta. E non torna indietro. Chi me la rende?
Ogni mattina mi svegliavo con l’ossessione, e poi restava sempre con me: fine pena mai. È un miracolo se non impazzisci o non ti ammali di brutto».
La arrestano il 10 maggio 2006.
«Dopo una pizza con gli amici. Mi bloccarono due volanti, gli agenti armati, pistole in pugno. Tutti in borghese. Nessuno parlava, nessuno mi spiegava. La spada mi è entrata in testa in quel momento e c’è rimasta una vita».
Da campione a narcotrafficante.
«Mi portarono subito in caserma a Venaria: le foto segnaletiche, le impronte digitali. Poi mi diedero i trecento fogli dell’ordinanza: “Tieni, studia e capirai”. Ma io non capivo proprio niente. Questi sono pazzi, pensavo».
Quale l’umiliazione peggiore?
«Con le manette ai polsi provi dolore, senti freddo e vergogna.
Nella notte mi trasferirono a Cuneo sul blindato, si sta seduti dentro una specie di gabbia. Mi scappava la pipì, non volevano farmela fare.
Alla fine ci fermammo in un autogrill semivuoto, c’era solo una famiglia, mi guardarono strano. La mia forza è nata lì. Dimostrerò di essere innocente, mi ripetevo, servisse anche tutta la vita.
Mangiavo solo mele».
Poi il carcere speciale di Bergamo. Cosa accadde?
«Lì ho conosciuto un fratello, Bonnie Bonera che stava dentro già da diciotto anni. Mi capì al volo.
Disse: “Tu qui non c’entri niente ma sta’ zitto, non lamentarti e non rompere i coglioni a nessuno”. La mattina, sveglia alle 6 con i manganelli che sbattono sulle sbarre, come nei film. Allenavo la squadra dei detenuti, e la domenica la partita: meraviglioso. Dalla cella vedevamo il campetto d’erba, che bello, pensavo, però era quello delle guardie. Il nostro, solo terra battuta».
In quella cella lei ha visto la finale dei Mondiali.
«I miei amici in campo, Del Piero, Ferrara che aiutava Lippi,Cannavaro che a Napoli mi chiedeva la macchina se doveva uscire con una ragazza, e io in gabbia. Per fortuna c’era la tivù. Le guardie mi chiedevano: “Michele,che dici, si vince?”»
Cosa ricorda del ritorno a casa?
«Giocavo a carte. Venne un agente gridando “liberante!”, ma nessuno tra noi sapeva chi fosse anche setutti speravamo di esserlo. Non te lo dicono prima, è una delle tante forme di violenza, per piegarti. Poi i domiciliari, nove mesi, e la prima condanna: 8 anni e 8 mesi, diventati 6 anni e otto mesi in appello. Senza la Cassazione sarei ancora dentro.
Alle udienze di primo grado, uno dei giudici ogni tanto si addormentava».
Come si sopravvive?
«Con una moglie come Adriana, un figlio come Denis e due avvocati come Michele Galasso e Giacomo Francini: sono stati loro a salvarmi la vita».
E gli amici?
«Spariti quasi tutti. Non Gianluca Presicci che giocava con me a Cosenza, non Gianluca Vialli che era meraviglioso e mi ripeteva “Michi, non mollare un cazzo!”. Il mio leader. Venne a testimoniare, provarono a tirare dentro pure lui.
Padovano, Vialli e la cocaina: ma quando?»
È vero che ha persotutto?
«Sì. Ho dovuto vendere quello che avevo, 17 anni sono lunghi. Mi sono reinventato, prima ho preso un bar, poi un parco giochi per bambini ma il Covid ci ha fregato. Quando mi arrestarono avevo 38 anni, ero un dirigente del calcio. Ora vorrei che attraverso il lavoro mi venisse restituito un po’ di quello che ho perduto. Sono un uomo di campo e vorrei ricominciare da lì, va bene anche come magazziniere».
Avrà pur chiesto aiuto a qualche vecchio amico, no?
«Soltanto porte chiuse: spariti tutti.
Negli sguardi degli altri vedevo il pregiudizio, il sospetto, pensavano fossi Pablo Escobar e non un errore giudiziario».
Il suo, forse, è stato non rinnegare un amico.
«Si chiama Luca Mosole, siamo cresciuti insieme. Faceva cose con le quali non c’entravo: lo intercettarono e conclusero che ci fossi di mezzo anch’io. Ma gli avevo solo prestato dei soldi per comprare cavalli: l’ho dimostrato».
C’è una parola per definire tutto questo?
«Solitudine».
Essere stato un campione l’ha aiutata a combattere?
«Beh, la mentalità è quella».
Come si sente adesso?
«Felice come non mai e stordito, fuso, la botta di adrenalina è stata troppo potente. La paura del futuro è comunque meno grande della forza di rimettermi in gioco, zero a zero e palla al centro. Ma se la date a Padovano, quella palla, lui farà gol».