La Stampa, 2 febbraio 2023
Pamela Anderson si racconta in un documentario
C’è una Pamela Anderson dentro ognuno di noi, uomo, donna o queer, non fa differenza. In alcuni è una presenza infinitesimale, in altri un’attitudine accentuata, ma da qualche parte, magari nascosta, esiste e pure se in quantità impercettibili, quel filo di pamelitudine diventa evidente, pulsante, davanti a «Pamela, a love story», l’ultima biopic di Netflix.
È l’ennesima volta in cui la donna diventata famosa grazie al seno rifatto (calmi, lo dice lei), si racconta. È bravissima a farlo, senza questa dote non avrebbe fatto parlare di sé per quattro decadi, ma ora dentro, queste due ore spiazzanti, c’è quel che non ti aspetti. E pure quello che spiega perché un’attrice che non ha mai recitato, una show girl che non ha avuto uno spettacolo, una moglie seriale che non ha avuto amori di cui andare fiera, si è tenuta addosso ogni etichetta che le hanno appiccicato sopra. Che si è messa addosso da sola, per semplificarsi l’esistenza. Invece di strappare le definizioni stonate, le ha stratificate. Fino ad averne così tante da non essere più tracciabile.
In teoria è un personaggio ovvio: la dea del sesso, la bomba bionda, la superstar della corsa al rallentatore, il sogno californiano. Le descrizioni scorrono sulle copertine patinate e nelle presentazioni dei talk show, montate in serie nei primi minuti del racconto. Lei si presenta circondata da vecchie cassette vhs, così da essere immediatamente chiara: si parla di altri anni, altre abitudini solo che non è cambiato nulla. Forse nemmeno lei che ormai lontana dalla tv si mostra in improbabili vestiti bianchi sformati e trasparenti intenta a raccogliere carote sopra un trattore, nella tenuta di famiglia restaurata. Sta in un posto perso nel Canada dopo essere stata il punto di riferimento di Malibù, la sfrenata mondana di Londra, la principessa delle feste di New York. Qualsiasi eccesso è sorpassato e nessuno viene rinnegato: «Le mie tette hanno fatto carriera, io le ho solo accompagnate», una battuta meravigliosa e la chiave che libera la pamelitudine.
Ha posato nuda per Playboy e ha lasciato che il suo corpo parlasse per lei, ha puntato tutto su un bene che difficilmente perde valore, le tette appunto. La maggioranza delle persone non può camparci sopra e non lo saprebbero o vorrebbero nemmeno fare. Non è questo il punto, non sta lì il grado di parentela: ciò che sappiamo di Pamela Anderson è in realtà ciò che non ci riguarda. Il video porno rubato dalla casa che condivideva con l’ex marito rocker Tommy Lee l’ha segnata eppure non dice molto di lei, parla più di noi. Quante volte una singola situazione ha pesato più di un totale di azioni? Quante volte spiegare come stanno davvero le cose ci è sembrato più faticoso che abbandonarsi al giudizio altrui? Gli incroci sembrano meno improbabili quando la storia si sgrana insieme con quelle immagini analogiche.
Anderson si sposa plurime volte, si accoppia di continuo con uomini che a turno diventano o violenti o insofferenti e sa persino il perché: «Se ti aspetti una donna e te ne trovi vicina un’altra si fa difficile». Nonostante ciò si lascia essere: nozze con Tommy Lee dopo quattro giorni di conoscenza, sulla spiaggia di Cancún. Lei che è uscita dalle spiagge di «Baywatch» e aderisce perfettamente allo scenario. Mezza ubriaca, mezza strafatta, confessa di ecstasy e bagordi come se fosse il resoconto di un sogno bislacco di cui si stufa senza riuscire a svegliarsi. Il figlio Brandon, presente nel film, si arrende alla banalità del rapporto: «I miei genitori sono probabilmente la coppia più folle che ci sia mai stata». Lei denuncia lui che va in carcere e i due si separano. Niente lieto fine e niente fine.
La bomba bionda sorride davanti alle disavventure ineluttabili: è un fumetto, sexy quanto volete, ma di un’autoironia che andrebbe insegnata a qualsiasi adolescente per la sopravvivenza quotidiana in un mondo social. Larry King le chiede: «Fa Playboy e ha paura di essere strumentalizzata?» e lei risponde, apparentemente candida e tristemente cinica, «no».
In «Pamela, love story» si citano Che Guevara, Virginia Woolf, Diego Rivera, Anaïs Nin, i poeti beat, Ed Ruscha, Rilke, Assange e non sono arie, sono accenni, pensieri miscelati ai ricordi. Confusa e felice. La bionda non vuole affatto proporsi diversa e provoca: «Perché ho scritto nei diari certe cose? Per fare magari poi un documentario e scoprire di essere una troia?».
Ripete quello che la maggioranza della gente pensa e nulla ha più peso: gli strati di etichette proteggono dall’imbarazzo, dal fastidio, foderano, rimbalzano gli sguardi indigesti. Il documentario è un invito a non toglierle. Non solo se vi siete rifatti la tette, non solo se per colpa di un video, circolato agli albori di internet, venite identificati con un filmino hard che poi sarebbe solo il felice sesso sfrenato di casa. Avere il coraggio di lasciare le etichette dove stanno significa corazzarsi, proteggersi. Bisogna solo avere stima di se stessi e non leggerle. Basta coltivare almeno un filo di pamelitudine. Anche in assenza di tette.