La Stampa, 2 febbraio 2023
Vasco racconta i 40 anni di Vita Spericolata
Domani «Vita spericolata» compie 40 anni. Il 3 febbraio 1983, un giovedì, Vasco Rossi sul palco dell’Ariston intonò per la prima volta l’inno a un futuro movimentato, più amico delle notti insonni che non del posto fisso, con il quale mirava a conquistare attenzione dai giovani spettatori di un Festival ancora polveroso ma ansioso di futuro. Quelli che gli somigliavano – va detto – non si accorsero subito di lui. Il Festivalone durava tre rapidi giorni, ma anche dalla presenza del futuro Vate di Zocca si avvertiva che la modernizzazione stava diventando obbligatoria: tanto che patron Ravera, ricorda Vasco, già dall’anno prima quando lo aveva invitato a partecipare con «Vado al massimo» continuava a ripetergli «Fai quello che vuoi», avendolo individuato dall’alto della sua esperienza come il nuovo che avanza. Giusto per ricordare il momento, quello fu un Festival strano, fatto di cose spesso inascoltabili e di qualche perla che le giurie non colsero: compresa chi scrive, che per il premio della critica votò come quasi tutti la notevole «Vacanze romane» dei Matia Bazar, quarta nella finalissima; «L’Italiano» di Cutugno fu quinta e diventò un successo mondiale. Vinse Tiziana Rivale con «Sarà quel che sarà», poi di lei non si seppe più nulla mentre «Vita Spericolata» non ci ha mai lasciati, anche se risultò venticinquesima davanti a «Cieli azzurri» di Pupo, ultimo. Dov’erano le nostre orecchie, com’era messa la nostra sensibilità? Eppure lì dentro scorreva già tutta l’aria disinvolta degli Ottanta, il whisky da bere al Roxy Bar come le star, e la citazione non peregrina di Steve McQueen. Insomma Vasco Rossi fece la sua parte, l’ultima sera se ne andò mettendosi in tasca il microfono; e quando esso cadde a terra, la sua voce continuò a cantare, rivelando il playback che avrebbe trionfato lungo tutto il decennio.
Come festeggia i 40 anni, Vasco? E che cosa voleva essere davvero «Vita Spericolata»?
«Dovrei dire a tarallucci e vino, come si fa sempre in questo Paese un po’ balzano. Era una canzone nata dalla sbornia di ottimismo probabilmente ingenuo degli Anni Ottanta, che veniva dopo la grande illusione del sogno di poter cambiare il mondo o almeno il sistema che metteva al centro la merce, il profitto, il consumismo, la pubblicità, invece che l’uomo. Con la sconfitta dei Settanta e il delirio delle Brigate Rosse, s’era infranto tutto. Ma poi: chi non vuole una vita spericolata a 30 anni? Una vita piena di avventura... È una delle canzoni più fraintese della storia dell’umanità, è un inno alla vita vissuta spericolatamente, nel senso di intensamente. È venuta fuori dalla mia anima, avevo alle spalle già anni di canzoni e vita sui palchi. Poi finì nell’album "Bollicine", e dilagarono tutti e due».
Facciamo un po’ di storia.
«Nel 1982, dopo "Vado al massimo", Ravera mi disse che dovevo tornare per riconoscenza. E io: guarda che son venuto a febbraio e ho fatto il matto perché volevo farmi notare. Non posso tornare a fare il matto, perché dopo dovrei andare a lavorare in un circo. Continuavo a rifiutare, ma a settembre magicamente, dopo molto tempo a lavorarci, venne fuori il testo per la bellissima musica di Tullio Ferro. Mi nacque la frase "Voglio una vita spericolata" e poi tutto il resto: per me, quando a un artista arriva una canzone così, poi può anche finire lì la carriera. E ho pensato: "Questa qui la voglio cantare a Sanremo, cantare "voglio una vita maleducata": era uno sberleffo a tutta la platea a quei tempi molto ingessata e anche a quelli che guardavano da casa. Una canzone che meritava».
Come ricorda l’ambiente musicale?
«C’erano tutti i cantanti che si preparavano, molto attenti a com’erano vestiti. A me sembrava di essere al cinema, in un mondo diverso dal mio. Loro mi guardavano come fossi venuto da Marte e viceversa, senza offendere nessuno. Tanti li avevo visti in tv da piccolo, avevano preoccupazioni diverse dalle mie e volevo dare una scossa. Ancora mi ricordavo che l’anno prima, dietro le quinte, Romina Power mi aveva lanciato un’occhiata eloquente, come se fossi stato l’ultimo degli umani; e il vincitore Riccardo Fogli mi aveva rincuorato: "Non mollare, prima o poi ce la farai pure tu».
In classifica finì penultimo, al venticinquesimo posto.
«Sanremo a quei tempi durava 3 giorni, le canzoni si ascoltavano una volta sola, due se arrivavi in finale. La più semplice colpiva. Io ero lì per farmi notare, per dare uno schiaffo a questo mondo imbalsamato. Quelli come me non aspettavano Sanremo per sentire musica nuova, noi ascoltavamo tutt’altro. Il Festival si guardava per i cantanti classici, per vedere l’ultimo look di Romina, Gianni Morandi che ricominciava, le giurie. Oggi le canzoni si ascoltano 4 o 5 volte durante tutta la settimana, hai tempo di apprezzare la qualità oltre la semplicità e basta, chi vota è un po’ più giovane, e cominciano a vincere quelli che hanno le canzoni più forti. Non significa ovviamente che quella che vince è la più bella, il risultato vero si sa dopo, quando una canzone va nell’aria e arriva al cuore della gente».