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 2023  febbraio 02 Giovedì calendario

Michele Padovano e la cocaina. Intervista

Vale più di un gol. Anche di quello segnato nel ‘96 contro il Real Madrid, che alla Juventus aprì la strada verso il trionfo in Champions League. Michele Padovano, 55 anni, non ha dubbi su quale sia la vittoria più importante della sua vita. Il verdetto della Corte d’Appello di Torino, che lo ha assolto dall’accusa di aver finanziato un traffico di droga dal Marocco, è un trofeo dal valore inestimabile. Ha atteso 17 anni – l’arresto risale al 2006 – perché la verità venisse a galla. «Diciassette anni sono una vita. La giustizia è stata lenta, ma non ho mai smesso di crederci. E oggi voglio dedicare questo risultato a mia moglie e a mio figlio, che mi hanno accompagnato in questa battaglia. Devo tutto a loro e ai miei avvocati, Michele Galasso e Giacomo Francini».
Possiamo dire che è la fine di un incubo?
«Altroché! Sono stati anni difficilissimi e in alcuni momenti ho avuto il timore di non farcela. In cuor mio sapevo di non aver fatto ciò di cui ero accusato, ma ho anche dubitato di poterlo dimostrare. La prima volta i giudici non mi hanno creduto e quella condanna a 8 anni è stata un colpo al cuore».
Cosa le ha portato via questa storia?
«Tutto. Quando sono venuti ad arrestarmi ho pensato che fosse uno scherzo. Non riuscivo a crederci. La mia famiglia è stata distrutta, ma insieme abbiamo trovato la forza di reagire. Ho perso il lavoro e ho dovuto dire addio al calcio, la mia vita».
In molti le hanno voltato le spalle?
«Sì, e tante porte si sono chiuse. Ho perso tutto quello che avevo: proprietà, soldi, fama. Cercavo lavoro e a parole erano tutti gentili e collaborativi, ma nei loro occhi leggevo il pregiudizio. Molti si spacciavano per amici, ma non lo erano».
Lei è stato in carcere?
«Tre mesi. I primi dieci giorni a Cuneo: non potevo parlare con nessuno e nemmeno farmi una doccia. Sembrava avessero arrestato Pablo Escobar. Poi mi trasferirono a Bergamo e lì incontrai una grande umanità. All’inizio pensavo fossero gentili perché ero Padovano. Invece lo erano con tutti. Gli altri detenuti hanno capito subito che quello non era il mio posto. Ero spaesato e il mio compagno di cella mi ha aiutato molto. Ancora oggi ci scambiamo qualche messaggio».
In cella ero spaesato Da Cuneo passai a Bergamo, dove un altro detenuto mi ha aiutato molto Ancora oggi ci scambiamo qualche messaggio
Lei ha dovuto dire addio al calcio, ma qualcuno di quel mondo le è stato vicino?
«Solo due persone hanno continuato a credere in me: Gianluca Vialli e Gianluca Presicci. Quando mi hanno arrestato, Vialli chiamava tutti i giorni mia moglie. Era una persona e un amico, so che oggi sarebbe felice per me. Mi manca molto».
Adesso può togliersi qualche sassolino dalla scarpa.
«Non mi interessa. Questa storia mi ha insegnato i veri valori della vita: stare in famiglia, prendersi cura delle persone a cui vuoi bene, coltivare rapporti sinceri. Voglio tornare a vivere, senza recriminare sul passato. Adesso è il momento del riscatto. La mia vita è racchiusa in un pallone, certe passioni sono stampate nel Dna. Rinunciare è stato difficile: ci sono ancora molte cose che voglio fare e il calcio è il mio mondo. Sto lavorando a un progetto legato alla gestione dei rapporti tra squadre e calciatori».
Ha affrontato il calvario giudiziario per colpa di un prestito a un amico d’infanzia. Sono cambiati i vostri rapporti?
«Ci conosciamo da quando eravamo bambini. E non rinnego la nostra amicizia: l’ho detto anche in Tribunale. Lui con me si è sempre comportato bene ha sempre detto che non c’entravo nulla. Ma non hanno creduto a me e neanche a lui».
Cosa le restituisce questa sentenza?
«Dignità, fiducia, speranza per il futuro. Non ho mai mollato, non l’ho mai fatto sul campo e nella vita. E non ho mollato neanche in Tribunale: non bisogna mai arrendersi».