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 2023  febbraio 01 Mercoledì calendario

Intervista a Rahul Gandhi

È partito dall’Oceano Indiano a inizio settembre ed è arrivato qui tra le nevi del Kashmir a fine gennaio: 3.500 chilometri a piedi. L’ha chiamata Bharat Jodo Yatra: la marcia per unire l’India. Di notte ha dormito in un container, come le 120 persone che hanno sempre camminato al suo fianco, tra cui il portabandiera scalzo. Di giorno ha attraversato villaggi, piantagioni, foreste, accompagnato da stelle di Bollywood e contadine analfabete, artisti e popolazioni tribali. Nella valle di Srinagar il primo giorno la polizia non l’ha protetto, ci sono state cariche di sostenitori e curiosi che volevano vederlo, toccarlo: nulla di drammatico, ma è stato l’unico luogo in cui si è creata una situazione di reale pericolo. Suo bisnonno fondò l’India moderna. Sua nonna era la leggendaria Indira Gandhi, assassinata dalle guardie del corpo sikh. Suo padre era il primo ministro Rajiv Gandhi, ucciso dalle Tigri Tamil. Sua madre è Sonia, nata a Orbassano, diventata leader del Partito del Congresso, che dopo aver governato per mezzo secolo ha ceduto il passo, anche sotto il peso degli scandali, ai nazionalisti hindu di Narendra Modi. Ora, con questa lunga marcia, Rahul Gandhi si riprende il ruolo naturale di capo dell’opposizione, a un anno dal voto. Le sue interviste ai giornali stranieri sono rarissime, a maggior ragione se italiani. L’unico modo è reggerne il passo da podista, per ascoltare una storia straordinaria, mai raccontata nei dettagli.
Mister Gandhi, perché la marcia?
«Per ascoltare e capire i miei compatrioti, e per ascoltare e capire me stesso. Nel profondo. Tutti dicono che siamo un Paese pieno di odio: una persona contro l’altra, una religione contro l’altra, una provincia contro l’altra. Volevo scoprire se è vero».
È vero?
«No. Tantissima gente non odia nessuno, anzi si vuole bene, si aiuta, si prende cura degli altri».
E la polarizzazione tra hindu e musulmani, che spesso degenera in scontri?
«La polarizzazione esiste. Anche l’odio. Ma non come li raccontano i media e il governo che controlla i media, per distrarci dalle vere questioni: la povertà, l’analfabetismo, l’inflazione, la crisi post-covid dei piccoli imprenditori indebitati e dei contadini senza terra».
E cos’ha capito degli indiani e di se stesso, alla fine della marcia?
«Che i limiti di ognuno, me compreso, sono molto oltre quel che pensiamo. In sanscrito, la lingua più antica al mondo, esiste una parola, Tapasya, difficile da comprendere per una mente occidentale. Qualcuno la traduce con «sacrificio», «pazienza», ma il significato è un altro: generare calore. La marcia è un’azione che genera calore, ti fa guardare dentro te stesso, ti fa capire la straordinaria resilienza degli indiani. Un popolo fantastico, incredibile, capace tanto di sopportare quanto di amare».
Quale incontro l’ha colpita di più?
«Molti. Alcuni divertenti, altri scioccanti. Nel Madhya Pradesh ho incontrato cinque bambini, il più grande aveva 12 anni, talmente conquistati dallo yatra che sono scappati di casa per unirsi a noi: me li sono ritrovati davanti in Punjab, abbiamo dovuto chiamare i genitori affinché se li riprendessero. Adesso sono di nuovo qui in Kashmir».
E l’incontro più scioccante?
«Verso l’inizio, in Kerala. Temevo di non farcela perché mi era tornato il dolore al ginocchio destro, operato anni fa dopo che mi ero lacerato il menisco giocando a pallone. Una bambina si avvicinò e mi porse una lettera, dicendo: leggila dopo. C’era scritto: “So che soffri per migliaia di persone come me. Ce la farai. Non posso marciare con te, ma mi sentirai al tuo fianco. Sarò la tua ispirazione” (Rahul si commuove). Il dolore mi è passato. Lo yatra, la marcia, ha questo di speciale: non è solo una somma di persone. È viva. Ti parla».
Che cosa intende?
«Le racconto un’altra storia. C’è un ragazzo che vuole rompere il cordone della polizia. La polizia lo ferma. Lui riappare dall’altra parte. Chiedo di lasciarlo passare. Mi si avvicina, mi punta il dito, e dice: “So cosa sei venuto a fare qui. Altri hanno aperto un supermercato dell’odio. E tu vuoi aprire un negozio d’amore».
La democrazia indiana è in pericolo?
«La democrazia indiana non esiste più. Ma ora comincia il contrattacco».
Con la marcia?
«No. La marcia non è che l’espressione di un fenomeno molto più vasto, cui sono affidate le nostre ultime speranze. Vede, la democrazia indiana è molto diversa da quella occidentale. È giovane, ma viene da un’idea antichissima, che si è manifestata da ultimo nel Mahatma Gandhi: l’Ahimsa, la non violenza. La democrazia è umiltà. È riconoscere l’altro. Io non ti sottraggo spazio; lo creo, facendo un passo indietro. La democrazia è credere nella natura umana. Quando il potere diventa violento e superbo, allora si arriva al fascismo».
Sta dicendo che l’India rischia il fascismo?
«Il fascismo c’è già. Le strutture democratiche collassano. Il Parlamento non lavora più: da due anni non riesco a parlare, appena prendo la parola mi staccano il microfono. L’equilibrio tra i poteri è saltato. La giustizia non è indipendente. Il centralismo è assoluto. La stampa non è più libera. La manifestazione del pensiero è proibita. La concentrazione della ricchezza è scandalosa. Gli estremisti hindu della setta Rss si sono infiltrati in ogni istituzione e la condizionano. La gente non vede futuro, perché è spaventata. Il regime usa la paura, perché sa che la paura è l’emozione più forte, da cui discendono tutte le altre».
Cosa pensa del premier Modi?
«Come ogni leader, è l’espressione di un’idea, di una parte del popolo. Mussolini è stato un’espressione degli italiani. Anche tra gli indiani, soprattutto nell’élite, ci sono molti che ritengono giusto il regime di Modi».
Crede che possa essere battuto alle elezioni del prossimo anno?
«Se l’opposizione si unisce, al cento per cento».
Guardi che nei sondaggi Modi è ancora molto forte.
«Non ho detto che perderà di sicuro; ho detto che di sicuro è possibile batterlo. A patto di opporgli una visione: non legata alla destra o alla sinistra, ma alla pace e all’unione. Il fascismo si sconfigge offrendo un’alternativa. Se al voto si confronteranno due visioni dell’India, potremo prevalere».
Modi non ha condannato l’aggressione della Russia all’Ucraina. Dovrebbe farlo?
«È una questione di politica estera, in cui non voglio entrare».
È una questione globale. Non teme una guerra atomica?
«Le cose possono finire male. Il collasso dei sistemi politici, e l’escalation della tecnologia, rischiano di far degenerare la situazione. Per questo auspico una soluzione pacifica, il prima possibile».
L’India può fare di più contro il riscaldamento del pianeta?
«Dobbiamo fare di più, pensando la difesa dell’ambiente e lo sviluppo non come antitesi, ma come sinergia. Nessuno può tirarsi indietro: gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina. E certo neppure l’India. Senza dimenticare che siamo una nazione povera».
Ma siete quasi un miliardo e mezzo. Quest’anno supererete la Cina e diventerete la na zione più numerosa della terra.
«È una grande responsabilità. Ed è anche un avviso al mondo: perdere la democrazia indiana sarebbe un disastro per tutti».
Come dovrebbe essere la relazione tra l’India e la Cina?
«Di pacifica competizione. Non credo che l’Occidente possa essere competitivo con la Cina a livello industriale, soprattutto nelle produzioni a basso valore aggiunto. L’India può e deve esserlo. Per la resilienza del suo popolo».
Il Kashmir è la terra d’origine della sua famiglia.
«Sì, le nostre radici sono qui».
Cosa rappresenta per lei la figura di suo bisnonno, Jawaharlal Nehru, primo ministro per 17 anni, dal 1947 alla morte?
«Non l’ho mai conosciuto, ma l’ho sempre considerato una guida. Tra i molti libri che ha scritto, i più importanti sono tre: l’autobiografia, su se stesso; La scoperta dell’India, sul nostro Paese; e Uno sguardo alla storia del mondo, sul nostro pianeta. Mi riconosco in una sua frase: “Non temere mai nulla, non nascondere mai nulla”».
Che ricordo ha di sua nonna Indira Gandhi?
«Ero il nipote preferito. Da bambino odiavo gli spinaci e i piselli. Ma mio padre Rajiv, suo figlio, era severo, e pretendeva che finissi tutto. Allora la nonna apriva il giornale e mi diceva: Rahul, leggi qui. Era il segnale convenuto: nascosto dal giornale, rovesciavo i piselli o gli spinaci nel suo piatto».
E il papà?
«Ovviamente se ne accorgeva. Ma non reagiva: in casa comandava la nonna».
È vero che poco prima di morire Indira la portò qui, in Kashmir?
«Sì. Sapeva che sarebbe stato l’ultimo viaggio, e voleva ritrovare le radici. Mi accompagnò al Dachigam National Park, a vedere gli orsi. E a contemplare i chinar, i platani orientali, l’albero simbolo di questa terra».
Come poteva sapere che sarebbe stato l’ultimo?
«La nonna era sicura che l’avrebbero uccisa. Io vivevo con lei. La mattina stessa mi chiamò, ricordo che si stava truccando, e mi disse: “Se mi succede qualcosa, non devi piangere. Almeno non in pubblico”».
Lei Rahul conosceva gli assassini.
«Erano le sue guardie del corpo, e i miei amici. Giocavo con loro. Uno mi insegnò a sollevarmi con la sbarra, l’altro a giocare a badminton».
Come seppe la notizia?
«Ero andato a scuola alle 7 del mattino. Alle 9 e un quarto mi avvisarono».
Pianse?
(Gandhi fa una ricerca sul telefonino). «Questa è la foto del funerale. Affondo il viso nella camicia di mio papà, per nascondere le lacrime. Avevo quattordici anni».
Era il 1984. Suo padre divenne primo ministro. E nel 1991 fu assassinato.
«Prima di partire per la marcia, sono stato a pregare a Sriperambudur, nel Tamil Nadu, sul luogo della sua morte. Anche papà sapeva che sarebbe stato ucciso».
Come poteva saperlo? Perché l’India era intervenuta in Sri Lanka, contro la rivolta della minoranza Tamil?
«Perché era solo. Non so se sapesse che sarebbero state le Tigri Tamil a ucciderlo. Ma sentiva che si era creata una concentrazione di energie, di interessi, di forze, che gli sarebbe costata la vita».
E lei non ha paura per la sua, di vita?
«Non è questione di paura. Io faccio quello che devo fare. Lei ha visto ciò che è successo qui in Kashmir: mi sono trovato senza protezione in una zona pericolosa, dove esplodono le bombe, dove bisogna guardarsi sia dai terroristi, sia dal governo. Hanno tolto la nostra sicurezza per spaventarci. Ma io vado avanti, perché questo è il mio dovere. Qui la politica non è come in Italia. È combattimento. Non si fa nei talk-show. Si fa a costo della vita».
Come reagì sua madre Sonia alla morte del marito?
«Non parlò per una settimana. Dei primi tre, quattro giorni non ricorda nulla. Era sotto choc. Ma poi anche lei ha fatto quello che sapeva di dover fare».
Lei disse: mia nonna è l’amore della mia vita, mia madre il mio eroe.
«A dire il vero, dissi che avevo avuto due madri. E lei ci rimase male: di mamma ce n’è una sola… Comunque sì, è sempre il mio eroe».
Sonia si preoccupa per lei?
«Moltissimo».
Si è unita alla marcia, e lei si è chinato ad allacciarle le scarpe.
«Tu non avresti fatto lo stesso con tua madre? Mia mamma ha sofferto, sopportato, amato tantissimo. È una donna forte. Ora ha perso anche sua mamma, nonna Paolina. Siamo stati al funerale, a Orbassano, in provincia di Torino. Ero triste, ma tutti hanno cantato canzoni molto belle, che mi hanno dato conforto».
Che ricordo ha di lei?
«Io ero il cocco della nonna indiana, e mia sorella Priyanka era la prediletta della nonna italiana (Gandhi sorride). Ha vissuto 98 anni, le ero molto legato. Come lo sono a zio Walter, ai cugini, a tutta la famiglia».
Cosa rappresenta l’Italia per lei?
«Ci sono tante cose dell’Italia che ammiro. La creatività. La passione. Il talento per la bellezza. Amo la musica italiana: Mina, ma anche le canzoni napoletane. Amo il calcio».
Per quale squadra tifa?
«Juve. E soffro per i guai che sta passando. Anche gli azzurri mi hanno deluso: dopo la vittoria agli Europei, mi aspettavo un grande Mondiale, invece… Come si fa a perdere con la Macedonia del Nord! Comunque in finale tifavo Argentina».
L’Italia oggi è un Paese di cattivo umore, non solo per il calcio.
«Ripenso a mio nonno Stefano. Aveva combattuto in Africa e in Russia. Da piccolo gli chiedevo sempre di raccontarmi della guerra, e lui non mi rispondeva mai. Fino a quando un giorno mi mostrò un elmetto che usava come vaso, in cui era nata una pianta. Era l’elmetto del suo migliore amico, caduto in combattimento. La pianta era un modo per farlo rivivere. La generazione di mio nonno ha ricostruito l’Italia dopo la Seconda guerra mondiale, con un lavoro durissimo. Forse questa cosa è andata un po’ perduta».
Che cosa?
«La capacità di soffrire. Prima parlavamo di passione. È una parola che ha in sé una carica di sofferenza. Lo struggle, il gusto della lotta. I giovani hanno molto altro, i social, la movida; ma questo un po’ manca».
La società italiana è aggressiva ma non violenta, quella indiana è violenta ma non aggressiva?
«Non sono d’accordo. Ci sono state nella storia italiana epoche di grande violenza, come ci sono state nella storia indiana. Non possiamo attribuire un carattere generale a un popolo. Dipende dalle circostanze. Oggi noi in India dobbiamo lottare contro l’odio e la violenza, per l’amore e la democrazia».
È questa l’eredità del Mahatma Gandhi, di cui cadeva l’anniversario della morte il 30 gennaio?
«Noi com’è noto non siamo imparentati con il Mahatma, ma mio bisnonno era suo discepolo. Gandhi ha incarnato un’idea antica nella storia dell’India: cercare la verità senza ricorrere alla violenza. È un’idea che abbiamo in comune con il cristianesimo. Cristo dice di porgere l’altra guancia. Ha notato qual è il simbolo del nostro partito?».
Una mano aperta. Un segno di benedizione?
«No. È un segno che esiste in tutte le religioni. Lo fanno Shiva, Buddha, Mahavira, Waheguru, la divinità sikh. Esiste nell’Islam. E lo fa anche Gesù (Gandhi cerca sul cellulare un’immagine del Cristo con la mano aperta). Significa: non abbiate paura. Non lasciate che la paura vi impedisca di comprendere la verità».
Com’è la condizione della donna in India?
«Cattiva. Ma esiste un movimento delle donne, che sosterremo in ogni modo. Nella marcia ne ho volute molte, e ne abbiamo garantito la sicurezza».
Perché a 52 anni lei non si è ancora sposato?
«È strano… non lo so. Troppe cose da fare. Ma mi piacerebbe avere figli».
Intanto si è fatto crescere il barbone.
«Avevo deciso di non tagliarlo per tutta la marcia. Ora devo decidere se tenerlo o no…».
Lei crede in Dio?
«Sì. Non nel dio creatore. Credo in una forza che c’è nell’universo, che ha una direzione, che ha un’energia».
Lei è induista. Quindi crede in Shiva e negli altri dei?
«Di Shiva dovremmo parlare altre due ore. Shiva è un’energia, ed è una prospettiva. È ovunque».
Come immagina l’aldilà?
«Non lo immagino. Non posso dare una risposta che non conosco. Credo nel presente».
Che effetto le fa vedere un premier britannico, Rishi Sunak, di origini indiane? L’antico dominatore è governato da un discendente dei dominati.
«Se è per questo, Orbassano ha avuto un vicesindaco sikh… (Rahul sorride). E voi mangiate mozzarella e parmigiano fatti da indiani. È il nuovo mondo. Cogliamone il bello».
Lei dice di voler salvare la democrazia in India, anche per il resto del pianeta. Ma nella democrazia il potere non si trasmette per via dinastica. Voi siete una dinastia, sia pure segnata dal sangue e dal dolore.
«Noi siamo una famiglia. Una dinastia, se vuole. Ma abbiamo un’idea da difendere. Non l’India; l’idea su cui l’India è fondata».
E quale sarebbe questa idea?
«La convivenza delle genti, e la realizzazione di se stessi, attraverso la ricerca non violenta della verità. La nostra è una missione. Un’idea quasi religiosa. Vale più di tutti noi, più della nostra stessa vita; per questo sono pronto a morire se necessario, come sono morti mia nonna e mio padre. È un’idea talmente forte che mia madre, una donna nata in Italia, le ha dedicato l’intera esistenza. (Rahul si china a tracciare con le dita un cerchio nella neve). Ecco, io questa idea la difenderò sino alla fine».