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 2023  febbraio 01 Mercoledì calendario

Geoff Emerick, l’uomo che registrava i Beatles

Quello dei Beatles è stato un fenomeno di tal portata che anche chi non li ha mai amati particolarmente ha finito per conoscerne canzoni, storia e pettegolezzi. Per esempio, il fatto che sia esistito un quinto Beatle, indicato da alcuni nel loro mentore e manager Brian Epstein.
Quel titolo onorifico di quinto  o, magari, sesto Beatle in realtà è spesso stato attribuito a George Martin, il mitico produttore di tutti i loro dischi tranne Let it be. Chissà che, dopo aver letto Registrando i Beatles (Here, there and everywhere) (Coniglio Editore, traduzione di Luigi Abramo, pagg. 421, euro 28), vi sentiate di tributare tale onore allo stesso Martin in coabitazione con Geoff Emerick, il tecnico del suono che ha scritto (insieme a Howard Massey) questo interessante e, a tratti, scanzonato libro.
La sua sarebbe la storia di un lavoratore come ce ne sono tante se non avesse incrociato il percorso dei Beatles. Emerick non fa mistero dell’ansia provata quando, ancora giovane, più o meno coetaneo dei quattro fenomeni di Liverpool, accettò su richiesta di George Martin di fare da tecnico del suono ai Beatles: «L’unica cosa che stavo pensando era: speriamo di non mandare tutto a puttane». La band muoveva i primi passi, ma aveva già mostrato di che pasta fosse fatta. I suoi timori erano dovuti per lo più allo scostante John Lennon e al taciturno George Harrison, di cui erano noti i frequenti commenti sarcastici. Ringo difficilmente parlava in sala di incisione e la proverbiale affabilità di Paul McCartney lo tranquillizzava.
Era un’epoca tutto sommato pionieristica per l’industria musicale e per il mondo dell’ingegneria sonora. La EMI, da buona casa discografica pressoché di stato, aveva ancora regole rigidissime e usanze arcaiche, come imporre ai suoi dipendenti un camice bianco o marrone a seconda del livello professionale e cubicoli di lavoro che, di fatto, impedivano ai tecnici impegnati a registrare su due o quattro piste di sincronizzarsi a vista. Era pure un’azienda verticistica in cui il capo, nella fattispecie il leggendario George Martin, era una sorta di divinità inarrivabile, un lord nel suo castelletto privato che, in quanto produttore, non si sporcava le mani con operazioni triviali come il posizionamento dei microfoni o il taglio dei nastri e non accettava minimamente l’apporto di nuove idee dai suoi collaboratori, faticando addirittura ad accogliere con favore eventuali suggerimenti artistici da parte dei musicisti.
Gli studi di Abbey Road che, come ci dice Emerick, iniziarono a portare quel nome solo nel 1970, erano enormi, pensati per ospitare intere orchestre sinfoniche. Spesso, il materiale fonoassorbente era talmente vetusto che, quando per la prima volta venne superata una certa soglia sonora, i pannelli del soffitto si sgretolarono, creando una sorta di nube tossica all’interno dello studio.
Insomma, i Beatles furono una rivoluzione nella rivoluzione, finendo per scardinare usanze rigorosissime che nessuno si era mai sognato di mettere in discussione. Dopo i primi timidi approcci, la sfrontatezza di quei quattro ragazzi ebbe la meglio su un ambiente non esattamente pronto per la loro vivacità e ancor meno per accogliere gli sconquassi che, di lì a poco, la nascita del movimento dei Figli dei Fiori avrebbe creato.
È stato scritto praticamente tutto sulla vicenda umana e artistica dei Fab Four e molti degli aneddoti riportati da Emerick non sono certo inediti, ma colpisce il suo disincanto e pure la sua sincera ammirazione per quella musica a cui sente di aver dato un contributo importante.
Come quando John Lennon si presentò in studio con l’abbozzo di uno dei suoi pezzi più celebri, Tomorrow Never Knows, durante le session di Revolver. John disse che il pezzo era diverso da qualsiasi cosa avessero mai concepito prima: «Ha un solo accordo e voglio che la mia voce suoni come il canto del Dalai Lama dalla cima di una montagna».
Emerick, rammentando che i brani monotonali erano sempre più di moda in quella fase embrionale della psichedelia, era convinto che fossero pensati per un ascolto da fumati o da trip. La sua perplessità iniziale è evidente, ma quelli erano i Beatles e non li si poteva deludere: con l’utilizzo di loop primordiali, ovvero pezzi di nastro incisi e giuntati, il fonico realizzò un trucco sonoro che finì per essere preso a modello da schiere di musicisti del periodo.
Registrando i Beatles è un libro godibilissimo. Non solo per beatlesiani.