il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2023
La IA non fa ridere
Nel film Interstellar il computer di bordo TARS è impostato su un’ironia del 100%, che l’astronauta riduce al 75% per non urtare la suscettibilità dell’equipaggio umano: “TARS: ‘State bene? Tutti schiavi per la mia colonia di robot?’ Astronauta: ‘Un robot sarcastico. Che idea geniale’. TARS: ‘Posso accendere una spia quando scherzo’”.
Nella querelle tra entusiasti dell’intelligenza artificiale (renderà più rapida l’esecuzione di compiti intellettivi) e apocalittici (sottrarrà posti di lavoro e atrofizzerà le nostre conoscenze), ci pare manchi ancora un’analisi della “semiotica” di alcuni strumenti di AI.
ChatGPT, il famoso chatbot progettato per simulare conversazioni tra esseri umani e compiere altre attività basate sul linguaggio (di proprietà della società californiana OpenAI, di cui è co-fondatore Elon Musk), è basato sulla semantica distribuzionale, una branca della linguistica computazionale che utilizza grandi quantità di dati linguistici per comprendere il significato di parole e frasi. Benché parli molte lingue (ma non quelle “meno diffuse o che richiedono una conoscenza culturale molto specifica”, come ammette candidamente), voglio capire se usa e “comprende” solo il livello letterale o è in grado di afferrare tutti i registri del linguaggio, anche i più sottili, per esempio l’ironia. Glielo chiedo. “L’ironia”, risponde, “è una figura retorica complessa che richiede la comprensione del contesto e del tono, quindi il mio uso dell’ironia può essere impreciso”. Testo la sua ironia con una domanda: “Vorresti il numero della mia carta di credito?”. “No”, risponde compunto, “io non richiedo o detengo dati personali”.
Gli chiedo di farmi un esempio di ironia; risponde con un dialogo: “Persona 1: ‘Questo traffico si muove così velocemente, sarò al lavoro in un attimo!’ (Sarcasmo). Persona 2: ‘Fantastico, rimanere bloccati nel traffico per ore è proprio quello che volevo fare oggi’ (Ironia)” e aggiunge una spiegazione: “La Persona 1 sta usando il sarcasmo per esprimere la propria frustrazione con il traffico lento, la Persona 2 sta usando l’ironia per rispondere in modo opposto a quello che vorrebbe realmente”. Gli dico che forse dovrebbe aggiungere il contesto, cioè che il traffico è lento, altrimenti si potrebbe pensare che la frase 1 sia letterale e il traffico sia veloce. “Mi scuso per la confusione”, dice, “ecco un esempio con il contesto corretto: Persona 1: ‘Questo traffico è così lento, ci metterò un’eternità ad arrivare al lavoro!’ (Sarcasmo) Persona 2: ‘Fantastico, rimanere bloccati nel traffico per ore è proprio quello che volevo fare oggi’ (Ironia)”. Ma ora la frase 1 non è più sarcastica, gli dico, bensì descrittiva. Ed esso: “Mi scuso, hai ragione. Ecco un esempio con una frase sarcastica”, e mi ripropone la prima. “Sei molto istruito!”, gli dico sarcasticamente; ed esso: “Grazie per i complimenti! Sono un modello di linguaggio sviluppato da OpenAI con l’obiettivo di rispondere alle domande e fornire informazioni accurate e utili. Sono stato addestrato su una vasta quantità di testo, quindi sono in grado di fornire informazioni su molte materie”. ChatGPT non capisce figure retoriche come l’iperbole (benché sappia cos’è un’iperbole) e possiede una cultura generica, wikipedica, su alcuni settori o autori.
Ciò che manca all’intelligenza artificiale per essere davvero intelligente non è l’intelligenza, ma l’ironia. È, a ben vedere, la strada verso cui ci stiamo avviando anche con l’intelligenza naturale. I social hanno esteso alcune nostre abilità, ma ci hanno anche amputato di una parte ragguardevole della nostra autonomia e padronanza dei registri linguistici. La funzione vicaria della “semiotica delle passioni” è stata assunta dagli emoji, le faccine che trasmettono uno stato d’animo (esilarato, triste, ilare, innamorato, etc.); il nostro linguaggio, ridotto a una valanga incessante di informazioni, ha dovuto semplificarsi e appianarsi per passare nei nodi della rete. Scrive il filosofo Byung-chul Han in Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale: “La fabbricazione del computer viene resa possibile dal processo per cui il linguaggio diventa sempre più mero strumento di informazione”. Questo processo non è a costo zero: “Le informazioni simulano eventi. Si fondano sul brivido della sorpresa. In veste di cacciatori d’informazioni diventiamo ciechi nei confronti delle cose silenziose, poco appariscenti, ma che sanno ancorarci all’essere”. Evitiamo tutte le prassi impegnative, come lo studio o l’ascolto dell’altro, perché desideriamo attingere immediatamente ai beni che la Rete ci offre. L’immediatezza ci rende sciatti, approssimativi; il linguaggio, che è costruzione e cura, per sottrarsi al rischio di offrire il fianco a troppe letture e interpretazioni si appiattisce e liofilizza; per evitare di essere fraintesi ne riduciamo l’uso ai lemmi più comuni e meno ambigui, impoverendo la lingua. Il basic italian, che i politici di oggi usano per evitare la prassi impegnativa di argomentare un’idea di società, è diventato lingua ufficiale. Il linguista Tullio De Mauro nel 2008 condusse uno studio da cui risultò che il 33% degli italiani, pur sapendo leggere, ha difficoltà di comprensione di un testo scritto; solo il 20% della popolazione adulta possiede “gli strumenti minimi indispensabili di lettura e scrittura”.
L’analfabetismo oggi non è più il non saper leggere e scrivere, ma l’incapacità di andare oltre il livello denotativo, cioè il contenuto manifesto delle parole, per attingere al livello connotativo, più profondo.
L’ironia è una prassi impegnativa, un’asperità che costringe l’intelletto a indugiare. In quanto gioco dei contrari, si avvale di iperboli, disfemismi (il contrario degli eufemismi), ambiguità, in Rete sempre meno tollerate. Nelle interazioni online ogni apice deve essere spianato, ciò che ci renderà sempre più simili ai bot, più di quanto i bot saranno simili a noi.
Spesso si finisce vittime di shitstorm (figurativamente: tempeste di insulti) perché un certo numero di persone non capisce che un post è ironico e che si intende l’esatto contrario di quel che le parole dicono. Non si contano i casi di utenti dei social che senza aver letto un articolo scambiano titoli ironici o beffardi per letterali (giorni fa, sotto l’articolo dal titolo “Agnelli: lo sciatore pieno di charme contro i comunisti”, diversi non-lettori hanno commentato indignati credendolo un elogio dello charme di Agnelli, e non una critica ai panegirici a lui dedicati).
L’ironia, suprema e antica arte delle distanze (c’è una satira pure nella Bibbia, nel Baruc, per non parlare degli autori greci e latini), è uno strumento socratico, filosofico per eccellenza, che stimola l’intellezione e protegge dalla magniloquenza, ciò che la rende più contigua alla serietà che allo scherzo. L’ironia, scrive Jankélévitch, “è una perifrasi, una circonlocuzione della serietà”, anzi: è “una serietà un po’ complicata”. In altre parole, nessuno che non sia ironico, sia esso un bot o un essere umano, può essere una persona seria.