Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 01 Mercoledì calendario

Intervista a Jonathan Franzen

Benché lui faccia di tutto per tenersi attivamente a distanza da questa definizione, Jonathan Franzen è probabilmente quanto di più vicino al Grande Romanziere Americano ci sia dato di conoscere. Uno scrittore capace di immergersi completamente nella narrazione, in grado di descrivere la scrittura, il lavoro sul testo, l’immaginazione, come qualcosa di estremamente prossimo all’esperienza mistica. Un uomo di impulso e sentimento, e forse anche per questo benedetto dalla capacità innata di trasferire alla pagina sensazioni talmente vivide da renderle irresistibili anche per il lettore.Sono passati poco più di ventun anni dalla pubblicazione del suo primo romanzo, Le correzioni, un capolavoro della letteratura mondiale che lo ha catapultato sotto la luce troppo calda dei riflettori, mettendo alla prova la sua pazienza, la sua tolleranza, ma rendendolo in qualche modo la voce sincera di un’umanità sempre più a disagio e sempre meno disposta a tacere. Ha litigato e si è indignato, ha scritto altri capolavori – Libertà e Crossroads, uscito lo scorso ottobre, tutti pubblicati in Italia da Einaudi e tradotti da Silvia Pareschi – definendo di volta in volta in maggiori particolari la condizione familiare, e dipingendo un’America sempre più disincantata e allo stesso tempo sempre più ideologica. Un’illustrazione di Norman Rockwell pensata da Ralph Steadman. La rappresentazione realistica e ordinata del puro caos.Da qualche anno, da scettico, si è trasferito a Santa Cruz, dove nutre le sue granitiche certezze.
Fran Lebowitz ha detto: «Ho sempre ragione, perché non sono mai imparziale». Lei si sente imparziale?
«Ci provo. La natura di un’opinione è di non essere mai una verità assoluta. Faccio una distinzione tra quello che scrivo nei miei romanzi e quello che metto nei saggi. In un romanzo sento il bisogno di ribaltare la mia visione, ritagliandola su un personaggio per vederla da un lato che mi è precluso. Con la saggistica, avendo a che fare con problemi presenti, mi infervoro non appena mi metto a scrivere. Ma provo a usare entrambi i mezzi contro la mia stessa opinione, per ampliare la mia visione. Diciamo che comincio con uno sguardo di parte nella speranza di arrivare alla fine imparziale».
Ha mai cambiato idea su qualcosa?

«Sì».
Difficile da credere.

«Negli anni Novanta ho espresso opinioni particolarmente dure sulla televisione. Per me era la nemica giurata del romanzo, ed essendo io estremamente di parte, difendevo il romanzo con tutte le forze. Poi ho cominciato a guardarla e ho scoperto che negli ultimi 25 anni sono usciti prodotti di altissimo livello. Così ho unilateralmente dichiarato una tregua nella guerra tra il romanzo e la tv, decidendo di ammettere che le serie sono una nuova versione di quello a cui aspirava il romanzo nel Diciannovesimo Secolo».
Cioè?

«Ho sempre creduto che il romanzo avesse una funzione sociale. Una delle ragioni per le quali mi sentivo minacciato dalla televisione negli anni Novanta è che mi rendevo conto che era perfettamente in grado di rappresentare la realtà. Il rapporto tra i miei personaggi e le questioni sociali era più intimo, più impellente, ma la televisione faceva un lavoro migliore di me nel restituire la globalità. È più veloce, più vivida, più lucrativa – il che permette di includere nella lavorazione un maggior numero di persone i cui punti di vista sono più vari rispetto a quello di un unico romanziere. Così ho deciso che era venuto il momento di arrendersi e l’ho fatto con gratitudine. Constatare la superiorità della televisione mi ha permesso di concentrarmi meglio su quegli aspetti propri solo della letteratura».
Quali?

«L’intimità, l’introspezione, il dilemma privato, che difficilmente trova posto nella necessità di rapidità che invece ha una serie tv. Ho potuto tornare a guardare dentro i personaggi».
Le serie che le hanno fatto cambiare idea?
«The Wire. Poi Friday Night Lights, che è un ottimo esempio di artigianato televisivo. Breaking Bad, Nurse Jackie, il finale di Silicon Valley è un capolavoro. Insomma, tutto lo spettro: dal grande romanzo sociale, alla commedia satirica».
È un bel cambio di posizione.

«Ho cambiato idea anche su altre cose. L’online dating, per esempio. Quando ha cominciato a diffondersi l’idea di trovare la propria anima gemella attraverso una app mi è sembrata un’assurdità. Poi sempre più amici e amiche hanno incontrato persone fantastiche in questo modo e mi sono dovuto ricredere. Non lo farei mai, ma ho decisamente cambiato idea in proposito. Non ho sempre ragione».
Spesso lei viene stato accostato alla ricerca del Grande Romanzo Americano, definizione che ha sempre detto di odiare – ma magari ha cambiato idea anche su questo.

«Continuo a odiarla».
La perfezione è possibile?
«In letteratura la perfezione sta nella forma breve. Il grande Gatsby si avvicina alla perfezione, Il gattopardo. Quando si produce qualcosa di lungo quanto sei o sette di questi romanzi, il rischio di sbagliare aumenta esponenzialmente. Ho la sensazione che l’obbiettivo non sia la perfezione, comunque irraggiungibile, ma ottenere dal romanzo l’esperienza più completa e soddisfacente possibile».
Lo pensa anche di un romanzo come il suo Le correzioni?

«Assolutamente. Mi è capitato di recente di rileggere diversi passaggi di Le correzioni perché sto lavorando a un nuovo adattamento televisivo. Da una parte sono sempre molto ammirato nei confronti del ragazzino che lo ha scritto, dall’altra vedo con chiarezza gli errori che ho fatto. I momenti nei quali ho osato troppo, la mia voce che cambia nel corso degli anni che ho impiegato a scriverlo. Cose che modificherei, insomma. Ovviamente non lo farò mai».
Lei sembra sereno. È felice?

«Sì. Se ritorno ai tempi in cui cercavo di scrivere Le correzioni non posso fare a meno di pensare alla fatica. È un romanzo che non mi è riuscito finché la mia vita non è cambiata. Sono uscito da un terribile matrimonio, ho incontrato la mia compagna, mi sono trasferito a New York, ho cominciato a fare lo scrittore per davvero. I miei genitori sono morti e mi sono sentito liberato, pronto. Poi il libro è andato bene, i miei problemi finanziari sono finiti, la mia paura di non trovare mai un pubblico è passata, attraverso il mio amore californiano ho scoperto il birdwatching, e questo mi rende tutt’ora estremamente felice».
Ha avuto un’epifania?
«Ancora oggi, sempre più raramente, qualcosa mi fa infuriare. Allora mi sveglio nel pieno della notte e mi metto a pensare febbrilmente a quella che potrebbe essere la mia reazione, a come esternare la mia rabbia, a cosa dire per ferire irreversibilmente il mio nemico. Ogni volta che succede, arriva un momento in cui mi rendo conto che prima di Le correzioni ogni notte della mia vita era così: un continuo rigirarsi nella rabbia. Non ne vale la pena. Non voglio più vivere così. Queste sono le mie continue epifanie personali».
È una bella cosa.
«È una fortuna. Non dover trascinare continuamente un bagaglio di rabbia è un privilegio. Vivo in un Paese corrotto da molto risentimento, che ha a che fare con l’impotenza o il vittimismo. E io non mi sento più né impotente, né vittima».Il risentimento è ormai globale. Tutto è giusto o sbagliato, senza vie di mezzo. C’è qualcosa che la preoccupa in particolare?«L’evoluzione tecnologica. Questo mondo in cui tutto è moralmente bianco o nero è sostanzialmente un prodotto dell’algoritmo dei social media. Trovo la prospettiva della cosiddetta “intelligenza artificiale” – anche se “network neurale” sarebbe una definizione migliore; non penso che l’intelligenza abbia nulla a che spartire con Chat GPT – piuttosto disarmante. È la fine della realtà oggettiva. Con un deep fake potresti prendere la mia faccia e farmi dire quello che vuoi».Qual è il suo timore?«Questa erosione dei fatti, questa estrema malleabilità della tecnologia, che può essere piegata a qualsiasi volere del consumatore, per me è spaventosa: mina le basi epistemologiche della società. Non si può più credere a nulla di ciò che si legge o che si vede su uno schermo».Ma la falsificazione è sempre esistita.«Vero, ma perlomeno le informazioni si potevano verificare attraverso le registrazioni e una testimonianza filmata poteva essere considerata più attendibile di un’altra riportata. Ora non più».Sono anche tempi rivoluzionari i nostri, però, e molto del tumulto che stiamo vivendo è veicolato dai social network.«Sui social mi sono fatto molti nemici. Ho definito Twitter una disgrazia, ma non credo che esista una piattaforma completamente malvagia: succedono belle cose su Facebook, su Instagram, sono certo che accadano anche su TikTok, qualsiasi cosa sia. Viene favorita una forma di socialità, che è un buon punto di partenza. Tuttavia, direi che preso tutto assieme il net-effect è decisamente negativo. Il male prevarica il bene».In Italia, TikTok sta favorendo le vendite di migliaia di copie di libri che si pensava avessero fatto il loro tempo.«I social sono sempre stati un fenomeno commerciale, è la premessa sulla quale sono stati costruiti. La loro diffusione si fonda sull’opportunità di promozione e non tutto ciò che viene pubblicizzato è necessariamente negativo. Può darsi che la vecchia maniera, quella per cui un lettore prendeva un giornale in cui trovava la recensione di un critico che lo convinceva se comprare un libro, avesse i suoi problemi. La validità di un prodotto culturale era filtrata dalla visione del giornalista. Ma mi limiterei a considerare la divergenza tra i due mezzi come una differenza, non come un miglioramento».Sembra che ultimamente anche l’arte sia soggetta a questo dualismo morale.«Se un artista è in grado di produrre opere come quelle di Caravaggio o Michelangelo non esiste condotta privata che possa cancellare lo straordinario traguardo artistico. In letteratura è tutta un’altra cosa. In un romanzo diventa molto più difficile scindere l’opera dallo scrittore perché l’opera stessa è la proiezione diretta della vita e del pensiero di chi l’ha creata. Inoltre, c’è la tendenza a leggere tutto dall’ottica dei tempi nei quali viviamo, di aspettarsi che tutto si adatti alla sensibilità presente. È una richiesta moralmente sbagliata nelle sue stesse premesse: si rischia di non trovare mai niente che ci soddisfi e si finisce per annullare completamente la lettura. Occorre leggere in maniera critica, soprattutto in presenza di idee politiche radicali e negative, ma non si può cancellare tutto ciò che non sia stato scritto negli ultimi cinque anni».Si può fare attivismo con la letteratura?«Sì, ma bisogna tenere in mente il fatto che più un’opera è politicamente schierata, più aderisce al proprio momento storico. Di conseguenza sarà più difficile da leggere in futuro».L’arte è sempre stata usata come mezzo politico, ora, però, ha anche un ruolo passivo: penso agli attivisti che imbrattano i quadri in nome dell’ambientalismo. Funziona?«Ultimamente qualsiasi forma di attivismo di sinistra mi fa pensare all’espressione “Come perdere amicizie e allontanare le persone”. Credo che incollarsi a un dipinto sia particolarmente stupido: non cambia niente ed è molto più probabile che produca una gran dose di contrarietà, anziché favore, alla causa. Tatticamente è un’idiozia. Il terrorismo politico è efficiente: non lo approvo, ma attaccare fisicamente il potere ha un suo senso. Attaccare le opere d’arte, no».Parlando di trambusto adolescenziale. In Crossroads, lei introduce due temi: il primo è l’adolescenza. È un periodo che ricorda con particolare nostalgia?«Da adolescente ero tristissimo. Non vedevo l’ora di diventare adulto e, appena ci sono arrivato, mi sono sentito in imbarazzo. Con Zona disagio ho cercato di liberarmi di quel periodo, ho imparato a riderne. Ora, quindici anni dopo, sono in grado di guardare indietro e finalmente vedere l’adolescenza oggettivamente. Quindi, no, nessuna nostalgia. Ma sono anni in cui tutto è incredibilmente intenso; gli anni delle prime volte. Non si torna indietro. Forse esiste qualche sostanza o qualche tecnica di meditazione che può riportarci minimamente alle sensazioni provate allora, ma le prime volte non sono rimpiazzabili».Il primo bacio.«Di più, la prima volta che ci si innamora. La prima volta che ci si rende conto di essere innamorati e comincia a nevicare. Sono cose che possono accadere ancora ma non sarà mai la stessa cosa, e lasciano ricordi incredibilmente vividi. Se si è in grado di mettere da parte il giudizio sul tipo di persona che si poteva essere allora, le conserviamo come esperienze grandiose».Il secondo tema è la religione. Lei è religioso?«Dipende da cosa intendiamo con religione. Sono andato in chiesa per una dozzina d’anni, ho fatto parte di un gruppo di giovani cristiani per sei, mi ha interessato l’arte religiosa, ho letto Flannery O’Connor e Dostoevskij. Conosco la Bibbia piuttosto bene: di alcuni capitoli si può fare a meno ma nell’insieme è un gran libro. Probabilmente sì, sono religioso, ma senza credere in Dio. Quando mi trovo a descrivere quello che provo scrivendo, però, o leggendo ciò che altri hanno scritto, il modo in cui la mia immaginazione si trasforma in frasi che io sono in grado di decifrare quando leggo, l’unico termine che mi viene in mente è “magia”. È qualcosa di misterioso, quasi miracoloso. E magia e mistero sono elementi religiosi, che danno il senso dell’universo. Trilioni di galassie ed eccoci qui, su questo pianetino nei pressi di una stellina, con questa capacità che si è evoluta da un atomo di carbonio sperduto nell’oceano. C’è qualcosa di profondamente misterioso in tutto questo, e se lo chiamassimo “Dio” il cerchio sarebbe completo».Affascinante idea questa dello scrittore come uomo di fede.«Già. E siccome ho regolarmente accesso a questo mistero, per me non è mai stato difficile chiamarlo “Dio”. Penso che lo farò anche questa volta».