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 2022  marzo 26 Sabato calendario

Su "Il Moro della cima" di Paolo Malaguti (Einaudi)

Il nuovo libro di Paolo Malaguti, Il Moro della cima, lascia addosso la sensazione confortante di trovarsi fra vecchi amici in un rifugio di montagna, in una di quelle serate in cui si cena presto dopo una giornata di cammino e l’isolamento dalle urgenze del fondovalle pare il lusso più prezioso, ché mentre le vette e i crinali spariscono nell’oscurità, le buone storie fioriscono spontanee a ricordarci che siamo nati per sognare.

Di montagna e di rifugi, di racconti orali e del tempo che scorre inesorabile sempre nella stessa direzione, d’altronde, è il romanzo stesso a nutrirsi. Malaguti ci racconta la storia di un uomo di poche chiacchiere e robuste emozioni - «le cose non hanno bisogno delle parole per esserci» - vissuto fra la seconda parte dell’Ottocento e la prima metà del «secolo breve» in quel lembo di terra veneta aggrappata alle ripide pendici del Monte Grappa, e proprio l’attrazione fatale per «la Grapa» è il fuoco che scalda la sua vicenda umana.

Di romanzi che hanno inizio con la morte del protagonista per poi ripercorrerne l’esistenza abbiamo illustri esempi, ma il nostro Moro nelle prime pagine lascia questa terra con una memorabile risata: «rideva come ridono i vecchi, qualcosa di simile a una fitta e rapida serie di colpi di tosse silenziosi. Rideva con le lacrime agli occhi, in preda a un vero e proprio boresso, di quelli che ti prendono nell’infanzia, quando il mondo ancora stupisce e rallegra, e ti obbligano a pissarti nelle braghesse». Malaguti riavvolge subito il nastro del tempo: ora siamo negli anni ’80 del XIX secolo, a ridosso del confine fra il giovane Regno d’Italia e l’impero «dell’aquila a due teste», e il protagonista è un giovanotto di famiglia contadina, che vive la sua esperienza iniziatica prestando aiuto per l’estate a un vecchio malgaro.

È il suo battesimo della montagna, l’inizio di una vita da «omo salvatico» che si consumerà fino agli ottant’anni «lassù, nel vento e nella luce pura» di un massiccio destinato a una metamorfosi: la «scoperta delle montagne», storicamente avvenuta a fine Ottocento, trasformerà il regno dei pastori in una meta per gli escursionisti - e il Moro in guida e gestore del rifugio eretto a ridosso della vetta - quindi la Grande guerra farà del Grappa un mattatoio a cielo aperto, la dittatura lo santificherà come sacrario, e il ritorno della pace lo renderà ciò che è oggi, meta d’elezione per gli amanti della vita all’aria aperta d’una vasta area pedemontana.

La consonanza con la Storia di Tönle e L’anno della vittoria è impressionante, tanto che a tratti abbiamo provato la vertigine di leggere un romanzo inedito di Mario Rigoni Stern, ma il lavoro sulla scrittura di Malaguti ha altri padri nobili. Lasciando qui in sospeso la questione se il veneto sia lingua o dialetto, la scelta mimetica del lessico rimanda con forza al Meneghello di Libera nos a Malo, e la dimensione epica d’una vita all’apparenza umile e ordinaria fa pensare alla saga del Mulino del Po di Bacchelli. L’irriducibile differenza antropologica fra popolazione rurale e borghesia urbana, infine, chiama in qua il migliore Guareschi, quello dei racconti posti in apertura a Mondo piccolo. Don Camillo e dedicati al contrasto fra la gente del Boscaccio e «quelli di città», pagine intrise di quel «patriottismo dell’immaginazione» che il filosofo inglese Robert Scruton considera indispensabile per «vivere, anche nel mezzo di frenetici cambiamenti, fra i morti che ti hanno affidato la loro memoria».

Non è un caso, allora, che come accade in Guareschi e Meneghello, anche nel libro di Malaguti la malinconia viri rapida al sorriso.

Gustosissimo, in questo senso, l’episodio in cui il Moro viene coinvolto suo malgrado in un incontro di boxe da una compagnia di signorotti saliti da Bassano e curiosi di confrontare la tecnica della noble art all’ineducato vigore del montanaro, che eleggono a campione della forza bruta prendendone sottogamba la scaltrezza; non meno ridente è la scena dell’inaugurazione del rifugio, all’insegna di una retorica accademica che sconcerta il Moro.

La sua attitudine laconica è il viatico per comprenderne i pensieri e immedesimarsi nelle sue emozioni, oltre che un invito metanarrativo a dar meno aria alla bocca per privilegiare l’ascolto, come accadeva nelle stalle in cui si faceva filò, e accade oggi quando ci chiamiamo fuori dalla frenesia meccanizzata delle città, per tornare padroni del nostro tempo con uno zaino in spalla.

È solo allora che torniamo a dare, come fa il Moro, il giusto peso alle cose, e nel trovare con umiltà il nostro posto nel mondo diventiamo capaci di ridere anche di fronte alla morte.