BookReporter, 1 novembre 2022
Intervista a Massimo Mapelli - su "Ad alta voce. Vita da giornalista. Sul campo e dietro le quinte" (Baldini+Castoldi)
Intervista a Massimo Mapelli: giornalista professionista, lavora al Tg La7 dove ricopre l’incarico di vicecapo della redazione Cronaca e di inviato. Negli ultimi anni si è occupato di importanti inchieste giudiziarie e ha seguito grandi fatti di cronaca in Italia e all’estero. Ha maturato particolari competenze nei settori Giustizia, Sicurezza, Difesa e Geopolitica. Ha realizzato reportage, interviste e approfondimenti anche per le rubriche e gli speciali del Telegiornale di La7, di cui ha condotto l’edizione della notte e la Rassegna Stampa.
Ad alta voce è il racconto di trent’anni di giornalismo vissuti in prima persona. Dalla formazione e gli esordi con l’esperienza di Rai Stereo Notte alla lunga marcia verso il praticantato e la conquista di una assunzione in pianta stabile dopo dieci anni di lavoro precario e le collaborazioni nella carta stampata e in televisione tra stampa periodica, la Rai e Tmc News. C’è il vissuto delle esperienze da inviato in Italia e all’estero anche al seguito delle missioni militari. I momenti epocali, in diretta da piazza San Pietro e in conduzione nei giorni della fine del pontificato di Giovanni Paolo II. Gli approfondimenti, dall’inchiesta al documentario e le grandi interviste. Il racconto del lavoro in Antartide e nelle regioni dell’Artico per spiegare gli effetti del riscaldamento globale e delle calamità come il terremoto dell’Aquila e il vertice del G8. La cronaca giudiziaria e il lavoro sui grandi processi dalla revisione del caso Calabresi, da cui nacque la rubrica dal carcere di Adriano Sofri, fino al delitto di Meredith Kercher. Il rapporto, raccontato senza reticenze, con editori e direttori, da Sandro Curzi ad Antonio Lubrano. E, dopo la nascita de La7, da Nino Rizzo Nervo a Giulio Giustiniani, da Antonello Piroso fino all’era Mentana.
Questo libro è una riflessione sulla professione giornalistica, sul presente e il futuro dell’editoria. Attraverso un racconto che si snoda in un arco di tempo in cui tutto è cambiato. Fino all’era dei social media, delle fake news e dopo l’impatto della guerra in Ucraina e della pandemia del coronavirus sulle nostre vite.
“Ad alta voce”, un percorso inerente ai suoi trent’anni di carriera nel mondo del giornalismo. Questi trent’anni hanno rappresentato un cambiamento epocale nei sistemi di comunicazioni, dalla macchina da scrivere ai computer, dai vinili ai file. Come è stato percorrere questa strada?
È stata una vera e propria rivoluzione copernicana, l’abbiamo vissuta intensamente noi del settore. Devo dire che siamo arrivati preparati, il giornalista era il lavoro che sognavo di fare fin da bambino, dunque avevo il massimo entusiasmo, un gran voglia di fare per cercare di adattarmi a tutti questi grandi cambiamenti. Quando avevo iniziato mi hanno avvisato: guarda che cambierà tutto e siamo solo agli inizi degli anni ’90. Anni di cambiamento in cui troviamo mail, primi cellulari, ciò ha determinato un nuovo approccio in merito alle notizie e al rapporto con le fonti. Tale graduale cambiamento mi ha condotto verso l’epoca del tempo reale, che ha cambiato il nostro modo di selezionarle, le notizie. Si tratta di cambiamento che hanno influito e influiscono tuttora sulle modalità dell’offerta giornalistica, non solo per le grandi testate, ma anche per le aziende televisive e i freelance. Sono cambiamenti che mettono a dura prova i giornalisti che devono verificare nel modo più completo possibile le notizie.
Nelle righe del tuo libro racconti i primi passi nel mondo del giornalismo attraverso l’etere, la radio, per poi passare alla televisione. Il passaggio dalla radio alla televisione come lo ha vissuto?
C’è da dire che questa esperienza che ho potuto fare all’inizio della mia carriera legata al mondo della radio, avveniva in una fase in cui la radio arrivava prima rispetto al panorama mediatico. Si diceva “è appena successo, lo ha detto la radio”. Bisogna considerare che non esisteva ancora la radiovisione, a differenza di oggi, in cui tutte le radio hanno un canale video, un corrispettivo visivo, all’epoca non c’era. Questo contrasto era fondamentale per creare una vera e propria differenza tra il format radiofonico e televisivo. Tutto si realizzava in un patto sublimato tra conduttori e ascoltatori che immaginavano reciprocamente i volti l’uno dell’altro. Ora, l’invasività della nostra società per immagini ha portato tutto ad essere visto. La radio oggi è su Internet, si può vedere. Ovviamente, in quel momento, la radiofonia di stato aveva un grosso vantaggio di diffusione sul territorio, non dico che esistesse un vero e proprio monopolio, considerando che già dagli anni ’70 le radio private avevano recuperato spazi e un peso nella radiofonia. In ogni caso, c’era una rendita di posizione della RAI che si faceva ancora sentire negli anni ’90. Il giornalismo televisivo è tutt’altro che semplice, il passaggio è stato complesso, si trattava di affrontare il processo di selezione di notizie in modo diverso. Fare giornalismo televisivo significa lavorare in squadra, si ha bisogno di un operatore professionale, un montatore, un producer e un archivista. Sono tutte figure che la velocità, l’evoluzione stessa della nostra professione tende ad accorpare. Questo comporta una nuova frontiera rispetto all’offerta del giornalismo televisivo stesso, ma quando ho iniziato io queste figure sono ancora divise.
Nei tuoi trent’anni di professione, raccontati nel tuo libro, ha citato dei passi importanti per la tua carriera: la
fine del Pontificato di Giovanni Paolo II, le missioni militari all’estero. La sua esperienza in queste aree di crisi cosa le ha lasciato?
Mi ha portato a comprendere molte cose, sicuramente una di queste la viviamo tuttora, in questi giorni, settimane, mesi di guerra in Ucraina: è necessario per il giornalista inviato poter verificare le notizie sul posto. Per la verità io non sono mai stato un inviato di guerra, ma ho seguito molte missioni militari, missioni che mi hanno portato a comprendere che osservando ciò che è stato l’operato delle missioni militari all’estero, se queste missioni si guardano senza pregiudizi ideologici, emerge un’Italia che ha tentato di rimarcare un ruolo di influenza rispetto allo scenario geopolitico. Ovviamente con tutte le cautele e le limitazioni che l’Italia ha dal punto di vista diplomatico e militare, considerando che spesso è legata a tutto ciò che riguarda il contesto dell’Unione Europea, militarmente è legata alla NATO. Dunque, tutto ciò che viene fatto dall’Italia all’estero, militarmente, è legato a questi organismi e, soprattutto nel caso delle missioni NATO sono avviate dopo autorizzazioni delle Nazioni Unite. Nonostante ciò, vedere i nostri soldati impegnati in missioni in Iraq, Afghanistan, in Kossovo (dopo il conflitto con la ex Jugoslavia) ha aiutato a capire che l’Italia, attraverso i progetti di cooperazioni avviati ha tentato di influire rispetto ad un’area in cui stavano succedendo molte cose. L’Italia ha cercato di non restare fuori da quei giochi importantissimi.
Altro tema affrontato nel corso del suo percorso professionale, descritto nel libro, sono i reportage dall’Antartide e dall’Artico per analizzare e comprendere le conseguenze del surriscaldamento globale, del cambiamento climatico. Conseguenze che oggi vediamo essere un tema estremamente attuali, gli sforzi che la Comunità Internazionale sta facendo per ridurre tali conseguenze sono immani, come è stata questa esperienza?
È stata un’esperienza meravigliosa. A un giornalista, un inviato, un cronista, capita nel corso della sua vita professionale di doversi occupare anche di vicende molto dolorose, quando ho potuto mettere in cantiere e poi realizzare due documentari ai due poli estremi del pianeta, grazie alle condizioni aziendali che lo consentivano, era un momento in cui si parlava di Global Warning, ma non così tanto come poi è accaduto negli anni successivi. Quello che ho potuto riscontrare attraverso queste due esperienze fantastiche è che questi grandi processi climatici, a quelle latitudini, si percepiscono in modo molto chiaro. Nel sistema-paese Italia ci sono delle ottime risorse che vengono utilizzate e che danno grandi risultati a quelle latitudini. C’è un grande patrimonio scientifico prodotto dai nostri ricercatori, l’Italia fa molto bene la sua parte. Si comprende che questo patrimonio scientifico raccolto, spiega chiaramente i fenomeni a cui assistiamo, a volte anche direttamente sul nostro territorio. Il problema vero è che quando queste quasi-certezze vengono sviluppate e percepite dalla comunità scientifica, a livello politico non si riesce mai ad arrivare a una soluzione che possa concretamente incidere rispetto ai grandi interessi geopolitici. È evidente che il controllo dei gas-serra è un enorme problema, bisognerebbe poi spiegare alla Cina o alla Corea (arrivati dopo rispetto alla rivoluzione industriale dei Paesi occidentali ed europei) per quale motivo devono smettere di produrre anidride carbonica. Sono fenomeni complessi che non possono essere visti sotto la sfera dei pregiudizi ideologici. È evidente che da un punto di vista professionale si è trattato di un’esperienza unica e irripetibile. Lavorare nel punto più estremo del pianeta e osservare da vicino questi fenomeni è stato qualcosa di difficile da dimenticare, qualcosa che ti fa credere che questo lavoro possa avere anche picchi di esperienze uniche che fanno pensare che anche i giornalisti, attraverso i loro racconti, possono fare la differenza.
In questo mondo globale della comunicazione, dove anche la guerra si combatte attraverso la comunicazi
one e i social, come è cambiato il ruolo del giornalista?
È cambiato nel senso che adesso noi viviamo l’era del tempo reale, era che ci mette sempre più rapidamente di fronte a tweet influenti o tendenze di notizie che si sviluppano sui social media, elementi che condizionano il flusso e la gerarchia del mainstream delle notizie. Ciò rientra all’interno di una sorta di cultura della disintermediazione, la quale evidenzia come i giornalisti non sono più gli unici titolari del processo mediante cui si sviluppano ogni giorno le informazioni nel mondo, sono solo parte di questo processo. È come se esistesse un altro campo di gioco in cui i giornalisti, detentori per eccellenza e per deontologia dell’informazione, non riescono a entrare; oppure entrano, ma solo in seconda battuta, devono allora precisare, spiegare e disinnescare le fake news, fornendo una chiave di lettura che dia un respiro un più ampio a fatti e notizie sviluppatesi nei social. C’è una perdita della titolarità assoluta rispetto al processo dell’informazione, questo dovrebbe creare una consapevolezza: il ruolo del giornalista è ancora più delicato, non essendo l’unico a giocare deve avere la capacità di attrarre il pubblico, di portare il pubblico ad informarsi mediante delle testate giornalistiche che garantiscono una informazione deontologicamente certificata rispetto ai social.
Quale consiglio darebbe a chi vuole intraprendere questa professione?
Non mi sognerei mai di scoraggiare, nonostante tutte le problematiche esistenti. Penso che la passione, la cultura e la conoscenza sono e resteranno le chiavi fondamentali per poter avere ottimi professionisti dell’informazioni. Il gioco continua a cambiare, ma questi tre elementi sono fondamentali per lavorare al meglio, anche in futuro.