il Giornale, 31 gennaio 2023
I grandi della poesia
Se c’è qualcosa che dobbiamo ristabilire con la lezione degli antichi è la sapienza. La sapienza è qualcosa di diverso dalla saggezza. Questa ha a che fare con la prudenza, la moderatezza, la medietà; è una forma d’addomesticamento della ragione. Al contrario la sapienza riguarda una visione oltre ogni conoscenza, qualcosa di tanto più vicino al fondo della vita da includere tutto quello che siamo capaci di razionalizzare e quello che non capiremo mai del tutto. La sapienza non elude ma include la follia del mondo. E ci vuole anche follia per fare delle scoperte, per essere davvero creativi.
Lo pensavo leggendo l’ultimo libro di Giuseppe Montesano, Tre modi per non morire. Baudelaire, Dante, i greci (Bompiani, pagg. 158, euro 12). Bisogna immaginare qualcuno, che può essere l’autore del libro, o un attore che recita quello che qualcuno ha scritto per lui, o ancora ognuno di noi, strangolato dall’insonnia, svegliarsi di notte, una notte che ci sembra infinita, in cui le ore non passano, il giorno è di là da venire, il tempo si dilata in una lunga preghiera, lì dove sono concentrate le nostre ansie, le nostre paure, i nostri tormenti, i nostri dubbi, il nostro desiderio conoscitivo.
Ci si può svegliare di soprassalto e attraversare il buio, invocare i propri fantasmi, ricordare tutto quanto abbiamo studiato, le poesie che abbiamo letto, i versi che ci risuonano dentro come un allarme, o una melodia che percepiamo ma a cui non abbiamo ancora dato senso, e improvvisamente vederli brillare come fari, come luci che accendono la notte. «Lo spleen è l’ora in cui compaiono gli spettri nei quali si mostra il rovescio consunto della società, l’ora in cui i fantasmi sorgono taciti e nella loro mutezza si specchia la parte nascosta delle cose. Nella fossa dello sconforto, nella putrefazione che dissolve l’Io, sull’orlo dell’impotenza assoluta, là fa la sua comparsa la tenebra illuminante dello spleen, l’atmosfera perturbata in cui si può dire indirettamente la verità E tu ti sei calato nella distruzione, hai resistito insieme alla tua poesia dentro la ferita della ragione, e hai ricevuto in cambio la conoscenza della realtà».
È costruito così il libro, come tre monologhi notturni dedicati a tre passioni inesauribili, quella per Baudelaire, di cui Montesano ha curato anni fa il Meridiano ma più recentemente ha tradotto e commentato I fiori del male, in Baudelaire è vivo (2021); poi quella per Dante, ma un Dante non esattamente mistico ma tutto proteso al viaggio, a un desiderio conoscitivo che lo mette in movimento, sulle tracce di una visione che è realissima; e poi quella per la cultura classica, per il teatro greco, per Sofocle ed Eraclito, per Saffo e per Platone, dove si scende nell’abisso dell’essere e le contraddizioni dell’uomo vengono alla luce, diventano spettacolo condiviso.
Ma qual è davvero il motore del libro? Dov’è la necessità che lo sottende? Montesano lo dice chiaramente. La contemporaneità ci vuole privi di passioni, privi di desideri reali, ci costringe a una vita surrogata. La nostra esistenza non può considerarsi più davvero tale. Siamo schiavi di desideri e pensieri che altri fanno per noi, incapaci di attraversare le zone d’ombra in cui la vita, la vita vera la chiamava Rimbaud e prima di lui i mistici, pulsa.
Siamo dentro la caverna, osserviamo le ombre e ci illudiamo che siano tutta la realtà, senza alcuna intenzione di strappare le catene, di uscire allo scoperto, di voltarci lì dove le cose sono nella loro interezza, nel loro essere e insieme non essere, nel loro disperato bisogno di esserci e essere riconosciute. Per questo evoca una rivolta, un bisogno umanissimo di cambiare la vita, di saper accogliere le metamorfosi dell’Io, in cui si è uno e molteplici perché ogni uomo, così come ogni elemento, è accomunato, è parte di un tutto; l’universo intero è uno e molteplice e noi parte di esso.
A questa necessità risponde la poesia, quella poesia che, per sapienza, sa vedere anche la follia del mondo, il suo ritmo dionisiaco. «I greci sanno che la poesia è l’estasi in cui la mia esistenza è sommersa come un’onda nel mare, unica. Unica eppure meravigliosamente, enigmaticamente molteplice: con la poesia arrivo a quella condizione in cui il culmine della mia vita individuale si unisce alla vita dell’universo, un’unione in cui l’esistenza è così piena che trabocca».
Solo nell’ultimo capitolo del libro scopriamo che i tre monologhi Montesano li ha scritti per un attore, Toni Servillo. È con lui che dialoga, e il dialogo in realtà è un sentire comune e un desiderio di condivisione che li accomuna: «L’idea, ma più che un’idea è un modo di sentire, che bisogna diventare vivi perché non lo siamo abbastanza, è nata da questo».
Quello che entrambi paventano, la penna che scrive e la voce che interpreta, è che Baudelaire, Dante, i greci, e tutta la sapienza della poesia non sono la cenere del passato, ma il fuoco di un presente inesauribile che può riaccendere la fiamma della vita ora, e qui, «più a fondo, più dentro».