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 2023  gennaio 31 Martedì calendario

Breve storia dei fiancheggiatori della mafia dall’800 a oggi

Quando Joe Valachi confermò in diretta televisiva l’esistenza di Cosa Nostra, durante una delle tante udienze della Commissione McClelland, il commento più ironico fu quello del compianto giornalista americano Fred J. Cook: “Si tratta – disse – di un grande passo avanti nell’accettazione ufficiale e pubblica dell’ovvio”.
Cook scrisse anche un libro in quegli anni dal titolo The Secret Rulers, in cui l’ovvia conclusione era che la mafia, quella basata sulla corruzione politica, stesse ormai diventando in America uno stile di vita. Sosteneva, infatti, che la corruzione, nell’improbabile eventualità di essere perseguita, comportasse sanzioni molto lievi. A farla franca erano in tanti.
È quello che ormai si rischia in Italia, dove è sempre più difficile perseguire i reati connessi alla Pubblica amministrazione. Se dovesse passare la linea sulle intercettazioni tracciata dal ministro Carlo Nordio, sarebbe impossibile fare indagini sulla corruzione e scoprire quel grumo di potere che sempre più spesso si annida tra le pieghe del malaffare. Tutto sarebbe ovvio come ai tempi di Valachi.
Ma è davvero così?
Forse non è del tutto ovvio, visto che si continua a ignorare l’importanza delle relazioni esterne che da sempre costituiscono l’ossatura del potere mafioso.
C’era un tempo in cui le mafie operavano grazie alla protezione di una parte della classe dirigente che se ne serviva per i propri tornaconti. Erano gli anni in cui la mafia veniva considerata un comportamento più che un’organizzazione, grazie anche alla convinta adesione di almeno tre presidenti del consiglio dei ministri che si erano spinti a definirsi mafiosi, ritenendo la mafia la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, d’ogni urto d’interesse e di idee, come l’aveva definita il folclorista Giuseppe Pitré. Concetti che, molti anni dopo, vennero ripresi anche da boss potenti, come Luciano Leggio, detto Liggio, il quale in una intervista concessa a Enzo Biagi nel 1989, citando appunto Pitré, attribuiva ancora alla mafia qualità estetiche e morali.
Questo modo di intendere la mafia ha finito inevitabilmente per influenzare anche la cultura giuridica, con magistrati che hanno assolto tanti presunti mafiosi per la difficoltà o la mancata volontà di distinguere tra mafia come organizzazione e mafia come portato del generoso temperamento dei siciliani. Grazie a questa colpevole sottovalutazione, la mafia si è imposta come intermediaria nella risoluzione dei conflitti, continuando indisturbata a offrire protezione in cambio di immunità, come aveva intuito già sul finire dell’Ottocento il questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi. Aveva messo assieme una corposa documentazione per spiegare il concetto di reciproca utilità che aveva caratterizzato sin dall’inizio il rapporto tra mafia e istituzioni. Per Sangiorgi, “i caporioni della mafia” stavano “sotto la tutela di senatori, deputati e altri influenti personaggi” che li proteggevano e li difendevano “per essere poi, alla lor volta, da essi protetti e difesi”. L’andazzo è continuato anche durante il fascismo, nonostante la retorica del tempo. A confermarlo, tra gli altri, fu Melchiorre Allegra, medico di Castelvetrano, in forza al reparto malattie infettive dell’ospedale militare San Giacomo di Palermo. Entrato nella famiglia del rione Pagliarelli nel 1917, ai magistrati disegnò la geografia di un potere che già allora si intrecciava con alcune frange della massoneria. Nessuno si stupì che un borghese come lui facesse parte di Cosa Nostra. In quegli anni, come ebbe modo di raccontare ai magistrati, nella mafia c’erano proprietari terrieri, avvocati, medici in quasi tutte le “famiglie”. Il verbale dell’interrogatorio di Allegra sparì, come tante altre cose in quel buco nero della Sicilia occidentale, rappresentato dalla provincia di Trapani.
Col tempo, ma soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, le mafie si sono affrancate e si sono scelte gli alleati più utili: politici, imprenditori, professionisti, uomini delle istituzioni.
Ricordando queste “alleanze nell’ombra”, Valachi sosteneva che i mafiosi americani avessero più padronanza dei sistemi legali e più controllo dei politici, di qualsiasi legittimo e grande uomo d’affari. “Più milioni illegali investono in affari legali, più confondono la linea morale tra il mondo di sotto e quello di sopra”. Era il 1963 e la filosofia di Cosa Nostra, secondo cui solo il denaro conta, era ormai diventata sempre più quella dell’America Dream“You have money, you have weight”. Il denaro era tutto e nessuno si preoccupava della sua provenienza, soprattutto in un Paese in cui gente come Rockefeller, Carnegie, Astor, Morgan era entrata nei libri di scuola con il marchio infamante del magnate ladrone (Robber Barons).
Oggi in Europa è anche peggio. Il denaro delle attività illecite entra con una facilità impressionante nell’economia legale. Pochi si preoccupano della sua provenienza. E in alcune scuole di business, agli studenti viene insegnato a non tenerne conto. L’unica preoccupazione è quella di soddisfare le esigenze del cliente. Le mazzette passano da una mano all’altra, senza timore di essere “intercettate”.
La mafia è solo quella che spara, quella delle stragi che fece correre in Sicilia anche Giovanni Paolo II. L’altra mafia, quella che non ha necessità di sparare, preoccupa di meno. Cosa fa? Cerca di occuparsi del governo del territorio, di infiltrarsi nella Pubblica amministrazione, di corrompere chi tiene in mano i cordoni della borsa e di beneficiare dei contributi stanziati per sanare calamità e crisi finanziarie. Poi da quando Internet è diventato virale, anche boss e affini hanno imparato a smanettare su tastiere e smartphone. Sono diventati ibridi. Si muovono online e offline. Tanto a notarli sono sempre e soltanto i soliti noti, quegli investigatori che non hanno perso ancora la forza di lottare. Nonostante il nauseante disinteresse di molti politici.