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 2023  gennaio 31 Martedì calendario

Non sparate sugli antichi

Due anni fa, Massimo L. Salvadori ha scritto un libro — In difesa della storia. Contro manipolatori e iconoclasti (Donzelli) – nel quale, in un ampio contesto, faceva riferimento ad iniziative di alcuni atenei statunitensi contro la storia antica. Sull’argomento è tornata Costanza Rizzacasa d’Orsogna in Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana (Laterza). Tutto ha avuto inizio con la decisione della Howard University di azzerare il proprio dipartimento di studi classici, che era in vita dal 1867, cioè fin dalla nascita dell’ateneo. Sulle orme della Howard University si è poi mossa l’Università di Princeton. Contemporaneamente una docente della high school di Lawrence (Massachusetts) ha esultato dicendosi «molto orgogliosa» di aver fatto rimuovere l’Odissea dal programma di insegnamento. D’un tratto gli Stati Uniti hanno scoperto che i classics sono razzisti e che estrometterli dalla scuola giova all’inclusività degli studi superiori.
La guerra contro gli studi sull’Atene e sulla Roma antica è un caso a sé nell’onda della cancel culture che sta travolgendo le istituzioni culturali del mondo anglosassone. Se ne occupa Mario Lentano in un libro di considerevole efficacia, Classici alla gogna. I romani, il razzismo e la cancel culture edito da Salerno. Siamo in presenza, secondo Lentano, di «una vera e propria chiamata in correità» dei classici latini e greci in ogni abominio del mondo d’oggi. I classici dell’antichità vengono trascinati sul banco degli imputati («con una capriola argomentativa tanto vertiginosa quanto spericolata») per «difendersi» dall’accusa di essere all’origine «di nefandezze» che vanno «dall’etnocentrismo al razzismo, dalla cultura patriarcale al sessismo, dallo sfruttamento degli schiavi all’imperialismo».
Lentano, pur prendendo le distanze dall’intera cancel culture, dedica le proprie attenzioni a un tema specifico: possono i cittadini dell’antica Roma essere definiti razzisti? La sua risposta è un documentatissimo «no». Tanto per cominciare, sostiene lo studioso, in nessun momento della loro storia «i Romani, come già i Greci prima di loro, sembrano essersi definiti collettivamente come “bianchi”». In latino l’aggettivo albus («bianco» appunto) «è impiegato coerentemente per indicare un individuo dalla pelle chiara, talora in contesti nei quali un tale individuo è contrapposto a un soggetto di carnagione scura». Ma al riparo da ogni genere di razzismo. Il nero, sempre in latino, viene definito Aethiops («Etiope»).
L’Etiopia – va ammesso – è più volte menzionata nei commenti cristiani ai testi biblici come «icona e metafora delle nazioni peccatrici» (assimilata talvolta all’Egitto che aveva tenuto in schiavitù il popolo eletto). Ma gli Etiopi – osserva Lentano – «avevano fatto il loro ingresso nella tradizione letteraria greca nella veste di nazione benedetta e di commensali amati dagli dèi. E vi erano rimasti a lungo come paradigma esemplare di devozione religiosa». Interessanti considerazioni in merito sono contenute nel libro di Federico Faloppa Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista (Utet).
Solo il poeta satirico Giovenale parla di «un individuo sano» che si «fa beffe di uno storpio» o di «un albus che deride un Aethiops». Ma, a prescindere dal disprezzo nei confronti di un individuo di colore che affiora dai versi di Giovenale, non risulta «che albus sia mai stato impiegato al plurale per designare nel loro insieme gli esseri umani dalla carnagione chiara». Mai i «bianchi» sono stati considerati nel contesto «di una partizione distinta dell’umanità, dotata di caratteristiche comuni a tutti i propri membri e opposte a quelle di altre partizioni». Da nessuna parte i romani si sono definiti “albi”. Né hanno usato espressioni come albi homines o alba gens. Ciò «induce a credere che ai loro occhi non esistesse una categoria analoga comprendente quanti non condividevano quel colore». E che, di conseguenza, li si potesse identificare «come gruppo separato e contrapposto».
Un discorso che vale anche per la Grecia antica. A dire il vero, in Omero non si fa cenno neanche alla partizione tra Greci e barbari. Lo nota Tucidide, lo storico ateniese del V secolo a.C., il quale si sofferma su questa mancata distinzione tra Greci e barbari sia nell’Iliade che nell’Odissea. E la spiega osservando che, all’epoca in cui vennero composti i due poemi, gli stessi Greci «non si erano ancora differenziati dal resto del mondo attraverso l’impiego di un appellativo distinto». Se in Omero non incontriamo mai i barbari è, secondo Lentano, perché nei suoi poemi «non compaiono neppure i Greci». O meglio «perché questi ultimi non si sono ancora dotati di un unico nome che li comprenda nella loro totalità».
E veniamo ai neri. All’inizio dell’Odissea nel simposio in cui gli dèi decidono con Zeus il ritorno in patria di Odisseo, Poseidone è assente. Assente perché, specifica Omero, si era recato tra gli Etiopi lontani, «gli Etiopi che si dividono in due ai confini del mondo, quelli del sole al tramonto e quelli del sole nascente». Quegli Etiopi che, come s’è detto, erano particolarmente cari agli dèi. Il colore della loro pelle, nella tradizione antica, era dovuto all’esser vissuti più vicini al sole. Erodoto nel V secolo a.C. parla degli Etiopi come di uomini «neri per via del calore bruciante». Quasi mille anni dopo, Servio, commentatore di Virgilio, torna sullo stesso concetto laddove, sempre a proposito degli Etiopi, spiega che «la vicinanza del sole li riscalda e ne determina il colore». Lucrezio parla del loro percoctus color cioè, traducendo alla lettera, di un «colorito completamente cotto». Così come il poeta epico Lucano per il quale essi sono «bruciati dal sole».
Definizioni che rimandano – scrive Lentano – «a un diverso modo, specifico nelle culture antiche, di guardare alla pigmentazione cutanea. Diverso modo, nel quale ad essere messa in risalto non è tanto una caratteristica cromatica della pelle, quanto la sua origine, ricondotta alla decisiva influenza dei fattori ambientali e climatici». In particolare «all’esposizione ravvicinata al calore solare». Senza che ciò porti con sé considerazioni d’altro tipo. Anzi. Tanto «i bianchissimi Germani persi nelle brume di un Nord disertato dal sole», quanto «i nerissimi Etiopi, tra i quali invece l’astro del giorno inizia la sua ascesa verso il cielo», vengono «ripetutamente descritti nelle fonti antiche come paradigmi di rigore etico, pratica spontanea della giustizia e devozione sincera verso gli dèi».
L’accusa di razzismo rivolta («un po’ sbrigativamente e all’ingrosso») alle culture antiche nel loro insieme costituisce un perno della cancel culture, «un movimento che», protesta Lentano, «spesso prende a bersaglio proprio i classici greci e latini». Chiedendo, come si è detto, di rimuoverli – in blocco o per singoli autori giudicati particolarmente “colpevoli” – dai piani di studio degli atenei». O, sempre più spesso, «dai curricula delle scuole superiori».
L’imputazione formulata ripetutamente contro gli autori antichi è quella di «aver praticato in modo sistematico e su larga scala forme di discriminazione fondate sul genere, sulla posizione sociale o sull’etnia di appartenenza». Lungo questa via, Greci e Romani avrebbero posto «le premesse della perdurante influenza di simili forme della cultura d’Occidente sino ai giorni nostri e giocato un ruolo di primo piano… nella lunga parabola del razzismo sistemico». Una posizione, reagisce Lentano, «che risulta a nostro avviso non solo scientificamente inaccettabile, ma anche pericolosa nelle sue premesse teoriche». Oltreché «negli esiti cui può portare e in parte sta già portando laddove sia riuscita a far valere le proprie pretese».
Obiettano i promotori della cancellazione: nella cultura romana, l’immagine dei Cartaginesi è oggetto di un «ricorrente stereotipo negativo». Nella letteratura dell’antica Roma si stigmatizzava abitualmente il «comportamento infido e ingannevole» dei Cartaginesi. Pregiudizio che veniva attribuito persino alle divinità. Nell’Eneide, ad esempio, Venere appare angosciata all’idea che Enea, naufrago sulla costa nordafricana, debba essere ospitato per qualche tempo dall’«ambigua gente» su cui regna la regina cartaginese Didone. Ma è evidente che il pregiudizio deriva non dal colore della pelle, né dai costumi dei Cartaginesi, bensì da decenni di competizione con Roma e di reciproca ostilità.
Cicerone – fa notare Lentano – contesta esplicitamente che a determinare le attitudini dei cartaginesi fosse il loro genus (termine che designa in latino la stirpe, l’appartenenza etnica, le caratteristiche legate alla nascita). A far sentire i loro effetti, secondo Cicerone, erano piuttosto «la natura del luogo e la circostanza di vivere in una città marittima e commerciale». Gli stessi fattori sui quali il grande oratore si diffonderà a lungo nella Repubblica dove «tra l’altro i Cartaginesi saranno menzionati come esempio negativo». Ancora una volta – osserva Lentano – l’ipotesi «genetica» viene «espressamente esclusa». La spiegazione delle caratteristiche di un’etnia «è cercata in fattori contingenti, e soprattutto cangianti, di carattere ambientale».
Attenzione, però. Lentano rifugge da un resoconto «oleografico e irenico» della storia di Roma. Respinge l’idea di rappresentare Roma come «una città inclusiva e aperta, che accoglie e integra nel proprio seno gli apporti più vari e diversi in un processo di allargamento lineare, progressivo e consensuale».
Un quadro di questo genere, sostiene lo storico, sarebbe «unilaterale e in ultima analisi mistificante». La storia di Roma, afferma, «non è una gloriosa ascesa verso la gloria». Né i suoi protagonisti sono «cavalieri senza macchia che vanno incontro al mondo a braccia aperte». Tutt’altro. La storia di Roma è fatta anche «di genocidi, deportazioni, riduzioni forzate in schiavitù, spopolamento di interi territori, vessazioni dei popoli sottomessi, controllo manu militari delle terre conquistate, abusi di ogni sorta compiuti in guerra e in pace nel governo delle province». Lo stesso ampliamento della cittadinanza non fu affatto un processo uniforme, «ma conobbe battute d’arresto, arretramenti e determinò lo scatenarsi di conflitti sanguinosi».
Di Augusto, il fondatore del principato, si diceva che fosse «ostile a qualsiasi inquinamento – così lo definiva – del sangue romano con quello di schiavi e stranieri, e che per questo al momento della morte avesse inviato ai senatori una sorta di testamento politico nel quale ammoniva tra l’altro a non largheggiare con le concessioni di cittadinanza». Proprio perché «restasse ben marcata una differenza tra cittadini romani e popolazioni delle nazioni soggette».
Nonostante ciò, l’immagine di Roma come società aperta, dalla cultura inclusiva che emerge dall’intera storia della città (che trova la sua fondazione nell’insieme dei miti delle origini) «è tutt’altro che arbitraria». Oltretutto rivela «una impressionante continuità». Un «robusto filo rosso» lega, infatti, la scelta di ammettere i Sabini alla cittadinanza romana da parte di Romolo e la costituzione dell’imperatore Caracalla che un millennio più tardi (nel 212 dopo Cristo) estendeva quella stessa cittadinanza, con poche e circoscritte eccezioni, a tutti indistintamente gli abitanti dell’impero (beninteso tenendo fuori dal computo gli schiavi)».
Con «buona pace dei cancellatori culturali» – ironizza Lentano – è evidente come la cultura romana sia stata quella che meno di ogni altra si prestava «a elaborare una nozione stigmatizzante di appartenenza etnica, assimilabile a quella dei razzismi contemporanei». Inoltre «è importante ricordare che Roma fu molto a lungo (almeno sino alla fine del III secolo d.C.) una società estremamente mobile, senza barriere di casta». E «con una diffusa possibilità di scalare le posizioni della gerarchia sociale». Anche per chi «fosse nato in una condizione di svantaggio». I fautori della cancel culture — descritti con grande efficacia da Alice Borgna in Tutte storie di maschi bianchi morti… (Laterza) – secondo Lentano hanno sbagliato bersaglio. Quantomeno stavolta.