Corriere della Sera, 31 gennaio 2023
Biografia di Mauro Corona raccontata da lui stesso
Mauro Corona, come sta?
«Sobrio da cinque anni».
Sobrio del tutto?
«No. Cinque anni fa ho smesso con l’alcol pesante, però poi qualche mese fa mi sono detto: ho 72 anni, perché devo morire infelice? Allora ho ricominciato a bere, ma con moderazione. Per essere precisi: con moderazione esagerata».
Ancora oggi lei arrampica, scala le montagne. Perché pensa alla morte?
«Perché ne ho paura, anzi, ho paura della vita che piano piano scivola nella morte e allora sono sempre sveglio, sempre all’erta. Non dormo quasi mai, la notte scolpisco e poi scrivo. Dormo qualche ora al mattino».
In lei c’è un’insonnia quasi futurista.
«Ha ragione, perché io sembro un arrogante, un attaccabrighe presuntuoso, ma è solo il puntiglio a fare le cose migliori. Da bambino mi hanno insegnato a fare da solo e a essere bravo. Dovevo essere bravo nel trasportare un carico di legna, sennò alla sera si stava al freddo».
Nato nel 1950 a Baselga di Piné, Trento, cresciuto a Erto, come dice lei «un pugno di case incassato nella valle del torrente Vajont».
«E dove vivo adesso. Ma io la fame vera l’ho conosciuta, mica come quelli che oggi scrivono di montagna solo dopo averci fatto due passi. Io lo so che cosa significa spaccare la legna, pascolare le capre. A tredici anni facevo questo e forse la fatica era meglio del dolore che c’era in casa».
Sua madre se ne andò dopo la nascita del terzo figlio.
«E quando tornò, anni dopo, fu anche peggio. Con mio padre litigavano tutti i giorni, bevevano e un giorno si addormentarono ubriachi per non svegliarsi mai più. Lo vede questo taglio sulla mano? Non è stata la montagna, è stato mio padre con un coltello. Dio l’abbia in gloria».
Lo ha perdonato?
«Sì ma non ho dimenticato. Non si deve dimenticare nulla, dimenticare significa cancellare. Come è stata cancellata la mia valle del Vajont. Con il disastro della diga, ormai sessant’anni fa, tutto quello che avevo è andato perduto. Gli alberi, l’odore della pioggia, i vecchi. I vecchi rimasti li misero in un ospizio, la chiamavano “la casa della morte”, perché non si capiva bene se là dentro erano vivi o morti».
Voi bambini siete cresciuti con i nonni.
«Alla Befana nonna ci portava il carbone. Noi bestemmiavamo perché non riuscivamo a capire che cosa avessimo fatto di male. Solo pochi anni fa ho capito: lei non aveva soldi per i regali e il carbone era la cosa più facile da procurarsi. Quanto l’ho maledetta, mia nonna. Ma se oggi fosse qui le direi: “Vieni a sederti qui, vieni a bere un goccio di grappa con me”. La abbraccerei. Mio nonno diceva solo due parole al giorno. Ma mi mise in mano un coltellino. Cominciai a scolpire nasi, occhi, teste nel legno. Lui mi guardava e non diceva niente. Per me allora scolpire diventò come parlare. Ero un bambino povero, ma sapevo fare cose belle. Poi scoprii i libri».
E come?
«Mia madre se n’era andata ma ci aveva lasciato una libreria piena di romanzi come Don Chisciotte o I Miserabili. Cominciai a leggere: mi sembrava, così, di averla ancora con me. Quando poi ci mandarono in collegio, a me e al Felice (uno dei fratelli di Corona, ndr) a Pordenone, al Don Bosco, ci chiamavano i selvatici, perché non avevamo mai visto una città. Sotto ai tavoli ci rifugiavamo. Ma io sapevo leggere, i preti lo capirono subito. Mi passavano romanzi, mi incoraggiavano a scrivere. Mi sono fatto da solo. E anche oggi lo sa qual è la cosa che ancora mi ferisce fino a farmi sanguinare? Quando qualcuno insinua che i miei romanzi non li scrivo io».
Come accadeva a Faletti.
«Proprio così. Ma io i parrucconi della letteratura me li mangio, perché io ho letto migliaia di libri. Vogliamo parlare di Francisco Coloane? O di Nicolás Gómez Dávila? O di Jack London? Accomodatevi, signori. Una volta al Salone del Libro di Torino ho steso pure Asor Rosa sulla letteratura russa. Mia madre mi ha lasciato solo questo, l’amore per i libri. L’unica fotografia in cui lei ride è quella che sta al cimitero. Ma fino all’ultimo quella donna ha speso qualcosa come 400 euro al mese in libri, quotidiani e riviste».
E suo padre come prese questa sua inclinazione?
«Una volta mi spedì all’Enel per lavorare. Arrivai, il capo mi disse che mi sarei dovuto abituare a stare sotto terra perché quello sarebbe stato il mio destino fino ai 60 anni. Me ne andai subito. Quel posto di lavoro durò sedici minuti. Gli dissi: “Papà, io voglio fare lo scrittore”. Gli portai una copia de Il volo della martora, il mio primo libro importante. Lo gettò nel fuoco: “Va’ a lavurar, cretino”, mi disse. Un milione e mezzo di copie, fece quel libro. Ma per lui era niente».
Per citare il suo amato Gómez Dávila, «La forma sublime del disprezzo è il perdono».
«Oggi ho tutto: fama, soldi, quattro figli bravi, un rifugio che mi accoglie. Ma sul mio libretto di lavoro c’è scritto “scalpellino”. Io ho lavorato in una cava di marmo, so che cos’è la polvere. Non riesco a essere felice. E nemmeno a godermi quei soldi che guadagno. Perché non so che farmene. Chi viene dalla miseria non ha nemmeno la giusta immaginazione su come spendere il denaro. Vado in giro con una Panda scassata, vedete anche voi come mi vesto e dove vivo. Chi ha conosciuto la miseria fa di tutto per tornarci. Quando cominciammo a guadagnare i primi soldi con i romanzi, mettemmo il telefono in casa. Quello con i fili e con il disco dei numeri. Mia moglie mi disse: “Ma non staremo esagerando con il lusso?”».
Nel suo ultimo romanzo, «Quattro stagioni per vivere», c’è un uomo che finisce per fondersi con la natura e con il bosco. Ma Osvaldo, il protagonista, è anche un uomo braccato.
«È così. La montagna non ha niente di idilliaco, e forse è anche per questo che non abbiamo mai avuto un “Omero della montagna”, un grande scrittore che l’ha raccontata bene. Perché la maggior parte dei libri su questo argomento sono libri che riportano imprese di conquista. Bonatti, per dire. Mario Rigoni Stern l’ha raccontata divinamente ma c’era sempre, sullo sfondo, la storia. Con lui abbiamo camminato tanto. Una settimana prima di morire mi scrisse una lettera in cui diceva: “Non so se io vedrò la prossima primavera, ma tu vai in montagna anche per me”. Caro, il Mario. Con noi veniva anche Primo Levi, era un omino sottile con le braghe alla zuava, sembrava una matita vestita. Sono andato per i boschi con Rumiz, un altro amico».
Quanta vanità c’è nella letteratura degli alpinisti?
«Uh, sapesse. Una volta volevo fare un libro con le migliori bugie degli alpinisti, ne ho interpellati a decine ma nessuno ha voluto cominciare. Poi, però, ci sono i grandi uomini. Prendiamo Erri De Luca: insieme abbiamo scalato tanto, anche il Campanile di Val Montanaia, una guglia sottile che si allunga fino al cielo. Erri ha un rispetto sacro per la montagna, pensi che non usa nemmeno la farina per le mani per non sporcare la roccia, non pianta i chiodi. Un pazzo, ma io sono più matto di lui, mi creda».
Quante strade ha aperto?
«Ho aperto oltre trecento vie d’arrampicata nelle Dolomiti friulane. La prima a diciotto anni, sul monte Palazza, in Val Zemola. Lo racconto nel libro uscito per Solferino, Arrampicare. Vede che anche io comincio a vantarmi? No, non deve essere così. Per me arrampicare è come scrivere, è toccare un territorio nuovo, provare ogni volta a riprendermi un pezzo d’infanzia. E si torna lì. Si ritorna a quando io e mio fratello, a tredici anni, venimmo mandati a fare i pastori. Non si scappa, così come non si sfugge alla scrittura. Storia di Neve è nato da undici mesi di sbornie notturne. Maledetto alcol. Ma io bevevo per strappare via le brutture della vita trascorsa».
Quando è stata l’ultima volta che ha rischiato la vita in montagna?
«Pochi mesi fa. Non ho messo il chiodo e sono andato giù per cinquanta metri. Meno male che c’era mio figlio Matteo».
Tutti i suoi figli arrampicano?
«Sì, ma sono più prudenti. Io ne ho fatte di tutti i colori: sono finito in una valanga sul monte Lódina, un’altra volta sono scivolato su una cascata ghiacciata con tre balzi verticali».
Comunque l’abbiamo vista in tv con il gesso al braccio.
«Cara la Bianchina (Bianca Berlinguer, conduttrice di Cartabianca, dove Corona è ospite, ndr). Le voglio bene».
Sì ma in tv lei le ha detto «stai zitta gallina», prima di essere sospeso dal programma.
«Rivelo qui per la prima volta una cosa: quando mi hanno riammesso, gliel’ho detto di nuovo ma nessuno se n’è accorto, perché in diretta dissi “passata è la tempesta, odo augelli far festa”. Lei lo sa come continua? Fa così: “...e la gallina, tornata in su la via...”. Non continuai con la poesia leopardiana ma nessuno colse la citazione. Questo per dire che mai avrei offeso una donna, io sono un ubriacone attaccabrighe e in tv faccio questo, d’altra parte se mi chiamano un motivo ci sarà. E comunque quella storia è stata tutta una montatura, ma non contro di me, contro la Berlinguer. Una scusa per attaccare lei».
Resta il fatto che «stai zitta gallina» è pesante, anche per un eccentrico come lei.
«Avevo bevuto un po’, quella sera. Questa è la verità. Dovevo delle scuse pubbliche a un albergatore e lei non mi faceva parlare. Ho sbagliato, ho chiesto scusa. Non ci sto, però, a passare come uno che disprezza le donne».
Anche perché lei ha tre figlie femmine...
«Marianna, Melissa e Martina. L’ultimo anno è stato il più bello della mia vita e sa perché? Perché le mie ragazze hanno affrontato e superato alcuni problemi. E poi ho imparato a vivere per sottrazione. Cerco di togliere il superfluo per apprezzare la vita. Circondarsi di orpelli e oggetti inutili crea dipendenza e schiavitù. E cerco di valorizzare i giovani. È la lezione di Cechov: non siate egoisti, aprite la strada agli altri».