Corriere della Sera, 31 gennaio 2023
La chiesa che perde l’Europa
Può il Cristianesimo perdere l’Europa senza combattere? Può accettare come fosse una cosa ininfluente per la propria identità che l’Europa estrometta dal proprio orizzonte quella fede facendone un semplice residuo archeologico, così come sta avvenendo? E può accettarlo innanzi tutto la Chiesa cattolica, la quale nel nostro continente è stata del Cristianesimo la manifestazione prima e resta indubbiamente la più rilevante?
In realtà è dalla fine della Seconda guerra mondiale che la Chiesa ha cessato di considerare l’Europa stessa un centro della storia mondiale e quindi della sua propria storia. La guerra sembrò la sconfitta definitiva del Vecchio continente, ormai ridotto a un condominio Usa-Urss, cioè di due Paesi estranei se non nemici di Roma. Anche il fatto che per la prima volta dei partiti cattolici fossero al governo in Germania, in Austria e in Italia si rivelò rapidamente non tanto la premessa per la nascita di quella «società cristiana» vagheggiata da Maritain bensì solo l’inizio di una rapida ricostruzione di segno capitalistico-americano all’insegna del consumismo e dell’individualismo. A radicare questa immagine dell’Europa come un’entità politica ormai fuori gioco, e per giunta moralmente macchiata dalle responsabilità nell’Olocausto, si aggiunse infine negli anni Cinquanta del Novecento una serie di fatti.
Innanzitutto la crescente importanza sulla scena mondiale degli Stati africani e asiatici neo-indipendenti, tutti invariabilmente di orientamento socialista, poi l’ascesa ideologica del terzomondismo, il rafforzamento e la stabilizzazione dell’egemonia mondiale russo-americana apparentemente definitiva e orientata ormai alla coesistenza; da ultimo il proliferare delle più varie organizzazioni multilaterali in genere sotto l’egida ancora prestigiosa delle Nazioni Unite.
La parte migliore del cattolicesimo e la Chiesa si fecero conquistare da questo scenario che così divenne la tacita ma decisiva premessa culturale e politica della svolta conciliare (1962-64). Una svolta non a caso caratterizzata sia da un’attesa piena di ottimismo per le sorti delle società umane, giudicate ormai sulla via di una sostanziale unità d’intenti all’insegna della cooperazione, sia da una fiducia nel progresso economico e nella basilare bontà delle conquiste della scienza, nonché dalla sicura speranza che i diritti umani e il consenso dei governati fossero ormai sul punto di divenire la dimensione obbligatoria di qualsiasi regime politico.
È evidente che in questa prospettiva fortemente universalistica qualsiasi significato specifico dell’Europa era destinato a svanire. Tutto quanto contava si giocava al di fuori di essa, a cominciare dalle sorti del Cristianesimo. L’Europa aveva in sostanza un carattere residuale e naturalmente la sua rapidissima decristianizzazione non poteva che confermare una tale analisi. In questa prospettiva il pontificato di Karol Wojtyła, il suo strenuo impegno in chiave ultraeuropea contro il totalitarismo sovietico, rappresentò non più che una parentesi: lunga, ma solo una parentesi. Così come non era destinato a lasciare un segno decisivo il papato di Ratzinger. Pur convinto – nell’assunzione stessa del nome di Benedetto – della centralità storica e teologica dell’Europa, egli non riuscì tuttavia a tradurre tale consapevolezza in una capacità di direzione in grado di spostare realmente il mainstream dell’opinione cattolica ed ecclesiastica. In particolare non riuscì a dar vita a quella pastorale nuova e alta, insieme duttile e drammatica, di cui la rievangelizzazione del continente pur da lui immaginata avrebbe avuto bisogno. Dopo Benedetto la Chiesa ha invece proseguito sulla via aperta dal Concilio, e anzi con Francesco è venuta accentuandola: nel senso di una predicazione sempre più mirata in generale contro la disuguaglianza e l’oppressione, a favore della pace senza se e senza ma. Ma il tutto perlopiù declinato in una dimensione planetaria intrisa di diffidenza se non peggio per qualunque cosa o potere sapesse di Occidente, e dunque di Europa, e viceversa assai indulgente per qualunque cosa non avesse quell’origine (ad esempio la Cina).
Ora è vero che l’universalismo è iscritto nel dna stesso del Cristianesimo e nel nome stesso del Cattolicesimo. Ma quell’universalismo cattolico ha comunque alle spalle una storia. Che era la storia di un ancoraggio fortissimo in un contesto e in un luogo precisi, sede di una millenaria tradizione di pensieri e opere risalente addirittura a prima di Cristo: cioè per l’appunto l’Europa. Per lungo tempo le vicende del Cristianesimo e dell’Europa avevano proceduto all’unisono, e quella tradizione europea, impregnata di spirito anche laico, anche irreligioso, aveva pur fatto corpo (eccome!) con l’identità del Cristianesimo, l’aveva condizionata, alimentata e modellata e ne era stata a propria volta alimentata e modellata. È mai possibile per il Cristianesimo/Cattolicesimo fare a meno di questo rapporto costitutivo e tuttavia conservare la propria identità? Lo può soprattutto la Chiesa che è di Roma perché qui essa raccolse l’eredità di tutto quanto c’era prima e se ne servì per tutto quanto sarebbe venuto dopo? Per tutto quanto essa per prima sarebbe stata dopo? Questo è l’interrogativo formidabile che si pone oggi.
E però tutto lascia credere che Roma quella domanda ormai non se la ponga neppure. Dovrebbe altrimenti constatare come proprio agli europei la sua attuale prospettiva irenico-universalista intrisa di ottimismo non possa che apparire sempre più irreale; come negli europei ogni illusione terzomondista e multiculturale vada ormai spegnendosi per effetto della ferocia islamista e non solo; come al di fuori dell’Occidente ogni internazionalismo resti un «flatus vocis» perché contano solo i rapporti di forza; dovrebbe constatare come le società europee pur continuando ad essere sempre travagliate dall’ineguaglianza lo sono in pari misura da altre cose: da una silenziosa ma lacerante inquietudine sui valori della vita e sul senso della morte che nessun progresso tecnico o economico può esorcizzare, da un’ansia di appagamento nel futile e nell’immediato che produce tuttavia solo abissali solitudini. A questa Europa che si allontana, che è già così lontana, Roma però non sembra neanche più interessata a trovare qualcosa da dire: convinta evidentemente che non qui ma altrove si giochi ormai la partita decisiva.
Eppure qui e non altrove sono le radici della Chiesa e della sua identità, la quale proprio per questo rischia di consumarsi e svanire, portandosi via anche il senso e la forza di quelle regole che ne costituivano il frutto. Ed è per l’appunto questo svanire dell’identità che produce la crisi che oggi si manifesta innanzi tutto – non a caso! – nel centro stesso della Chiesa rappresentato dalla Santa Sede e dal Vaticano: in un impasto che non fa neppure più notizia di disordini finanziari e dissolutezze private, di ambizioni personali e di arbìtrii del potere, di intrighi e di sospetti di ogni genere. Senza che nessuno, a quel che sembra, pensi a correre ai ripari.