La Stampa, 31 gennaio 2023
Ma serve, la Giornata della Memoria?
E anche quest’anno la Giornata della Memoria è venuta e com’è venuta se n’è andata. E mai come quest’anno me la ricordo così affollata, così madida, di buone parole, di nobili intenti, di interessanti spettacoli, di belle iniziative. E mai prima di quest’anno ho provato forte la sensazione dell’inflazione, il sentimento di esserne stufo, di non poterne più. Ci ho pensato a lungo, ci ho pensato sul serio giorno e notte, da quando giovedì scorso ho letto questo titolo, citazione da Liliana Segre, «Il Giorno della Memoria è inflazionato, la gente è stufa di sentire parlare degli ebrei». E questa è una pubblica lettera indirizzata a lei, a Liliana Segre, bambina ebrea deportata nel campo di Auschwitz-Birkenau, senatrice della Repubblica, alla persona di cui in questo momento so riconoscere al riguardo, unica assieme al presidente di questa Repubblica, non solo la sua autorevolezza, ma anche la sua autorità morale.Della memoria, signora Liliana, me ne sono fatto una passione di vita, addirittura di lavoro, racconto storie per fare la mia pur piccola parte nel rendere giustizia delle vite dei dimenticati della storia, dei dispersi nella sconfitta, di chi non ha avuto voce o non gli è stata concessa. E della memoria so questo, quello che credo sappia anche lei, che non la si può imporre per decreto. La smemoratezza sì, è stato fatto più volte e con buoni esiti, e quella che stiamo vivendo è epoca di smemoratezze, di pagine voltate senza nemmeno essersi presi la briga di leggerle; la memoria no, la memoria non si può imporre. Perché la memoria è elezione, è promessa, è giuramento, è passione; la memoria è assunzione di responsabilità, è disponibilità alla testimonianza, al martirio dunque. Per un testimone non c’è un giorno, c’è solo tutta una vita, celebrare il rito annuale della memoria è costringerla nell’immota consuetudine della circostanza; la memoria ha bisogno del costante movimento, del continuo rinnovarsi, per poter essere non solo viva, ma vitale, fecondo mandato. Chi porta memoria da sé non è niente, esiste solo quando c’è chi lo accoglie, lo ascolta, lo vede, lo legge, e nel farlo si fa partecipe, a sua volta testimone. È disperante il lavoro della memoria, è un lavoro di una fatica senza fine destinata a non avere mai un punto di arrivo, un traguardo da poter dire, ora il mio l’ho fatto; non l’hai mai fatto davvero il tuo, i decreti della smemoratezza sono rinnovati giorno dopo giorno, a disposizione hanno mezzi di persuasione, di coercizione, di punizione incommensurabili rispetto alla fragilità della tua voce.Che ne è allora della memoria nel Giorno della Memoria? Leggo dal sito del Senato della Repubblica che questa giornata è dedicata «In ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici nei campi di sterminio nazisti». Mi sbaglierò, ma non mi risultano eclatanti discorsi né molte interessanti e visibili iniziative riguardo ai 23.826 deportati politici italiani di cui 10.129 uccisi nei campi, né riguardo ai 600.000 militari del regio esercito di cui 37.550 uccisi, questi nella memoria li abbiamo già messi a tacere. È rimasta la memoria della Shoah, ma come? A parte i superstiti, i testimoni, i pochi martiri ancora vivi, e temo con lei che domani saranno ancora di meno e presto non saranno affatto, cosa ci ha consegnato di feconda, vitale verità questo giorno? Io so che il genocidio degli ebrei è un debito inestinguibile contratto dalla civiltà a cui apparteniamo nei confronti non solo del popolo ebraico ma dell’umanità intera. Inestinguibile, non c’è prezzo per riscattarlo, qualunque sia. E penso anche che se è unico negli strumenti, nei metodi e negli esiti, non lo sia stato negli intenti, altri debiti abbiamo contratto nel corso della storia, e pochi tra loro estinguibili e forse nessuno estinto. Mio nipote ha appena appreso a scuola che l’età moderna ha per data di inizio la scoperta dell’America, non dimenticherei che la nostra modernità ha prosperato sul genocidio di 70 milioni di nativi soppressi in un secolo di conquista, l’82% della popolazione. Penso allora che l’unico gesto di vera civiltà che potremmo fare è assumerci questo carico e provvedere perché il nostro cammino, seppur affaticato da tanto peso, non incontri mai più l’evenienza di contarne altri; e allora sarà la memoria che ci renderà più leggeri, la memoria che si fa giuramento universale, e il giuramento azione. È tutta in questo la fecondità della memoria, che pretende di agire, e genera non solo azione riparatrice, ma azione creatrice; smemorati potremmo mai erigere dalle macerie di cui abbiamo disseminato la contemporaneità quel mondo di giustizia, di fraternità, di pace, a cui parrebbe che tutti aspiriamo? Agire, diceva Hannah Arendt, è aggiungere qualcosa a quello che c’è, e quello che c’è è il mandato di ciò che è stato; solo assumendo la coscienza di questo potremo scegliere se agire per il bene o per il male. Ma evidentemente troviamo il peso del nostro debito intollerabile, perché tutto il nostro sforzo si è proteso ad escogitare i modi per liberarcene, e ne abbiamo trovati almeno due. Negarlo, semplicemente negare che sia accaduto ciò che è inoppugnabile, o trovare il modo di proclamarlo risarcibile, e con questo escogitare un riscatto al prezzo più conveniente; meglio ancora, liberarci in fretta di quel debito e con quello dichiarare chiusa la partita, altri debiti non ci sono stati, non ci sono, non si saranno, questuanti di tutto il mondo astenersi.Io sinceramente non credo che il pericolo maggiore all’accettazione di verità e giustizia sia nel negazionismo. Non lo credo perché una palese menzogna, un intrallazzo così palesemente schifoso, non avrà mai la possibilità di imporsi sotto gli occhi del mondo intero. La mia non è né bella speranza né fiducia cieca, ma la semplice constatazione di come sia poco conveniente, di come sia assai più faticoso negare che fingere di accettare, liberarsi il più in fretta possibile del debito pagando il meno che si può.Vorrei citarle signora Liliana un breve scritto del filosofo di origine ebraica Gunter Anders, che credo lei conosca. Fa parte dei suoi Stenogrammi filosofici del 1965, consideri la data, e ha per titolo Il Nascondiglio Migliore.Certamente sono migliaia e migliaia quelli che non solo non hanno niente da obiettare al dibattito sulla «rielaborazione del passato», ma ci esortano anche al rimorso, raccomandando addirittura vivamente la lettura di «Anna Frank». Attenzione! Tra queste migliaia, sono centinaia coloro la cui esortazione diventa puro tatticismo giustificazionista. Ciò che sperano di realizzare con essa non è solo di rendere invisibile la propria colpa, includendola in una colpa collettiva, ma soprattutto di avere in questo modo l’opportunità di ripetere il passato. Quando c’invitano a piangere il passato è perché sanno che l’occhio velato dalle lacrime non riconosce mai il presente o il futuro e che per loro non c’è nascondiglio migliore della società dei contriti.Ecco, io penso questo, penso che il Giorno della Memoria stia diventando il nascondiglio migliore per coloro che intendono sistemare la faccenda dei loro debiti e sistemare sé stessi nella generale contrizione; naturalmente sono solo centinaia tra le migliaia, ma visto quanto sia conveniente e facile, le centinaia si vanno facendo migliaia. E a questo voglio aggiungere un altro mio grande tormento. Se la memoria non si può imporre, non la si può neppure istituzionalizzare senza che si dissangui della sua verità, senza che si faccia memoria selettiva; anche al di là delle intenzioni, delle buone intenzioni, per la semplice ragione che è nella natura stessa delle istituzioni la selettività, le istituzioni scelgono. E la combinazione di istituzione e nascondiglio, o quando addirittura l’istituzione si fa nascondiglio, è esiziale, mortale. Per esempio, proprio in occasione del Giorno della Memoria, la seconda carica dello stato, il presidente del Senato della Repubblica Ignazio B. La Russa, ha dichiarato «infami» le leggi razziali del 17 novembre 1938 e ha proposto di istituire una apposita giornata memoriale. Bene, ma mi chiedo, e me lo chiedo perché proprio non lo so, se conseguentemente ritiene infame anche colui che considera il suo leader politico prediletto, Giorgio Almirante; il quale Giorgio Almirante, è stato il segretario di redazione della rivista La Difesa della Razza sin dal suo primo numero, agosto 1938. A proposito di memoria selettiva, quella rivista ha nella copertina del primo numero l’immagine esemplificativa della sua missione, ci sono tre volti in scala ascendente, al gradino più basso un negroide, poi un semita e alla sommità un ariano di razza italica, una spada separa l’eletto dai reietti. Chissà se Ignazio B. La Russa ricorda, o ha voglia di ricordare, quella immagine e con quella non solo le leggi del ’38, ma pure la legge del ’37, la prima legge squisitamente razziale dopo mezzo secolo di pratica razzista nella gestione delle colonie, con l’esclusione dei nativi in quanto sudditi da ogni diritto di cittadinanza e da ogni occupazione che non fosse meramente esecutiva. Quella legge puniva con il carcere chi ospitava nel suo letto e alla sua mensa una femmina nativa delle colonie imperiali per più di una settimana; attenzione, era tollerato il commercio carnale, dati i naturali istinti del maschio e la necessità di dar sfogo alla sua potenza sessuale, ma non l’oltraggio del «madamato», del more uxorio, che ripugna allo stesso principio del prestigio di razza. Possiamo forse non riconoscere nello spirito delle leggi del ’38 quello del ’37? Possiamo forse non riconoscere nell’odierno rifiuto della cittadinanza ai bambini nati in Italia dai discendenti dei colonizzati, l’eredità del nostro razzismo coloniale? Possiamo forse non riconoscere nella definizione di «carico residuale» che il ministro della Repubblica Matteo Piantedosi ha dato dei migranti in esubero agli accettabili sul territorio nazionale, la riduzione dell’umano ad oggetto, premessa indispensabile a ogni politica razzista. E ancora, non mi pare di aver udito una sola volta nel lungo discorso del primo ministro Giorgia Meloni in occasione del Giorno della Memoria la parola fascismo; possiamo in coscienza anche solo immaginare l’affermarsi del nazionalsocialismo senza che ci fosse stata la marcia su Roma? Adolf Hitler pensava di no. E poi, spulciando tra le mille iniziative, scopro che il sindaco di Lucca ne ha promossa una accoppiando la Shoah con le Foibe; possiamo forse in coscienza affermare che ci sia verità in questo, che ci sia giustizia per l’una e per l’altra tragedia della nostra storia? Francamente io tutto questo non riesco proprio a sopportarlo, e non riesco a tollerare l’idea che sarà sempre più così, in questo nuovo regime di contrizione generale infettata dall’ipocrisia se non dalla mala fede, ci prepariamo con gli occhi velati da tenerissime lacrime all’inanità e all’indifferenza di domani. Quando il partito di un ministro della Repubblica propone di escludere dal diritto di asilo i richiedenti per persecuzione di genere, non è questo forse un nuovo inizio di qualcosa che è già stato? E come lei ricorda, signora Liliana, i morti nel nostro mare non ci fanno forse tornare alla mente i bastimenti alla deriva degli ebrei in fuga che nessuno al mondo voleva accogliere? Certo, lo sterminio degli ebrei è la vetta assoluta, ma all’assoluto ci si arriva sempre per passaggi, un gradino alla volta. La contrizione fa volentieri a meno della vicinanza, dell’imbarazzante contatto con l’oggetto che ci ha imposto la scomodante afflizione, per questo non sono affatto sicuro che un mattino a venire, riaperto nottetempo se non a Milano Centrale, magari in un’altra stazione meno appariscente o in un piccolo porto di mare, un binario 21, ci saranno sguardi alzati verso quell’inconsueto accalcarsi di umanità su ferrigni carri bestiame, sguardi che impongano ai cuori e alle mani di agire.La Shoah è storia e questo dà forza alla memoria, e la memoria costringe la storia alla verità, e questo ne informa le ragioni. Ma perché della Shoah non rimanga che un rigo su un libro scolastico, è indispensabile che la memoria si insedi nella comunità, accolta certo nei suoi atti costitutivi, ma quotidianamente nel suo agire, che lo conformi, che sia parte dell’assunzione di responsabilità di ognuno nei confronti di tutti. È solo così che il testimone passa di consegna, che si moltiplica nelle generazioni, che non muore mai. E questo è un lavoro ancora tutto da fare, perché questa che ci siamo costruiti è epoca di smemoratezze in una società e in un sistema che non conosce l’interesse generale, ma riconosce solo, e ne va fiera, gli interessi, l’interesse di una nazione, l’interesse di un ceto, di una lobby, di un partito; un lavoro che non è alleggerito dalla ritualità, ma semmai appesantito, un lavoro a cui tutti sono chiamati, un bracciante di questa mia campagna non meno che un insegnante di scuola, il costante lavoro dei giusti. Intanto il suo lavoro signora Liliana non finirà mai, mai nel tempo, mai nello spazio, e così potrò anch’io essere un piccolo compagno di strada che non si stuferà mai di quanto sarà lunga, che non ne avrà mai abbastanza.Voglia, la prego, accogliere assieme alla mia stima il mio affetto, le voglio bene signora Liliana, senatrice della Repubblica. —