31 gennaio 2023
Dal libro di Lirio Abbate su Matteo Messina Denaro
Senza impronte Teme più gli occhi di sua figlia che l’ultimo sguardo di un morto ammazzato. Matteo Messina Denaro ha sulle spalle decine di persone assassinate, ha organizzato stragi e custodisce tuttora i segreti di Riina. Potrebbe essersi operato al viso – e in particolare agli occhi – e non sappiamo se ha ancora gli stessi lineamenti di prima. Allora, che uomo è oggi u Siccu? Uno che ha accumulato denaro, talmente tanto da non doverlo più contare. Lui il denaro lo pesa.
Non come Provenzano che persino in carcere segnava nei taccuini i centesimi della spesa. Matteo dicono che paghi anche per gli altri. La generosità è nel suo caso strategia di gestione del potere, ma se qualcosa, qualunque cosa, del meccanismo dovesse saltare, la sua prodigalità potrebbe venir meno. Chissà, magari con il tempo è cambiato. Succede a tutti. Forse del lusso non gliene importa più niente, e può essere che, come tanti a una certa età, abbia abbandonato il tabacco e si sia messo a fumare sigarette elettroniche. Probabile che sia ingrassato, che usi le lenti a contatto e non abbia più quel leggero strabismo che lo caratterizzava da ragazzo; che si vesta con abiti acquistati nei grandi magazzini e non più con capi firmati. Potrebbe trovarsi imbucato in un casolare della campagna siciliana o toscana, o magari in un anonimo condominio milanese, forse in una villa ai tropici, o in Africa. Per quanto ne sappiamo, potrebbe davvero essere ovunque. Si dice addirittura che qualche anno fa, per correggere il suo difetto di vista, sia andato in Spagna in una delle cliniche oftalmiche più importanti al mondo. Non abbiamo le sue impronte digitali, non c’è alcuna registrazione del timbro della sua voce perché non è mai stato intercettato, e non esiste alcuna foto segnaletica perché non è mai finito in carcere. E non sappiamo come siano cambiati negli ultimi trent’anni i suoi lineamenti: gli investigatori hanno a disposizione un paio di identikit realizzati al computer, ma solo uno di questi è stato creato con l’aiuto di chi gli ha parlato vis-à-vis: il testimone oculare è Giuseppe Messina, mafioso trapanese, che ha indicato agli esperti della scientifica come è il volto del latitante. Messina è l’unico ad aver rivelato di aver cenato nel 1996 con Matteo, anzi per quanto sappiamo è l’ultimo dei collaboratori di giustizia ad averlo visto di persona. Dal 2007 nessun altro pentito o mafioso intercettato ha svelato di averlo incontrato direttamente, tranne Patrizia, sua sorella, che era e rimane un punto saldo della latitanza di u Siccu. Il welfare mafioso di Matteo Se un boss di questo calibro è ancora a piede libero la responsabilità è di sicuro anche di una parte della comunità che lo appoggia, lo favorisce e lo copre. È una minoranza, certo, ma di fatto prevale sulla maggioranza di persone perbene che vivono nei territori ancora «occupati» dalla mafia. Matteo Messina Denaro gode nel trapanese di una protezione che spesso sconfina nella connivenza, se non nell’aperta condivisione di certi valori e nell’atteggiamento di contrapposizione rispetto a uno Stato in cui, da quelle parti, nessuno crede più. In passato, nelle gallerie dell’autostrada che da Palermo conduce a Trapani, sono stati affissi manifesti in cui si leggeva: «Matteo torna, abbiamo bisogno di soldi». Non tutto può essere delegato alla magistratura o alle forze dell’ordine. C’è un confine della legalità che si misura sul piano individuale, e ognuno deve decidere da che parte stare. Una decisione che dovrebbe essere semplice e scontata dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio e le bombe del 1993, che hanno scosso le coscienze di tutti. Eppure nei fatti, nella vita quotidiana di molti si rivela una scelta difficile. Dopo il 1992 si è creata una mobilitazione collettiva senza precedenti, determinata non solo dall’onda emotiva popolare seguita agli attentati, ma anche dalla fiduciosa aspettativa che cultura e ripristino della legalità si traducessero nella creazione di nuovi posti di lavoro e nel rilancio dell’economia, grazie a interventi infrastrutturali finanziati con denaro pubblico. Il sopraggiungere della recessione economica e i tagli drastici alla spesa pubblica hanno messo in ginocchio l’economia della Sicilia e i territori del meridione dove dominano le mafie tradizionali. È in questi casi che le organizzazioni criminali trovano terreno fertile, ed è qui che subentrano allo Stato diventando una sorta di «centro per l’impiego». E u Siccu sa bene che ogni nuovo posto di lavoro contribuisce alla crescita del consenso. Si sta radicando nell’immaginario collettivo la convinzione che la promessa di coniugare legalità e sviluppo sia stata ancora una volta tradita. Anche per questo motivo Matteo Messina Denaro ha potuto proseguire così a lungo nella sua latitanza, coperto e favorito da imprenditori, commercianti, politici e soprattutto da chi, in prima persona, ha meno potere: i disoccupati. E in questa frangia grigia della società «civile» non c’è alcuna intenzione di ribellarsi. Le intercettazioni ambientali di tante indagini continuano a rivelare collusione e omertà. A essere attaccato, anche pubblicamente, è chi fa la scelta decisiva, quella di collaborare con la giustizia. Non solo i pentiti. In Sicilia come in Calabria o in Campania, non si chiede ai cittadini di essere eroi, ma rispettosi delle regole. C’è disillusione, soprattutto nelle fasce popolari più disagiate e che maggiormente sentono i morsi della crisi e il ripiegamento nella rassegnazione fatalistica. Ci sono imprenditori che per andare avanti nella propria attività sentono il bisogno di un «passaporto sociale», e il paradosso è che a rilasciarlo è proprio Cosa nostra. Un passaporto che apre le porte delle banche, facilita i rapporti con gli uffici pubblici, sbaraglia ogni concorrente negli appalti. E se in calce a quel documento c’è il timbro di Matteo Messina Denaro, si tratta di un lasciapassare che apre qualunque porta. Anche per questo ci sono persone, delle più diverse fasce sociali, che oltre a timore nutrono per lui un affetto che sfocia nell’adorazione. La mafia è di nuovo considerata una «istituzione» credibile. Per questo u Siccu riceve l’aiuto di coloro che di fatto non vedono alternative, dal momento che lo Stato su troppi fronti presenta lacune profonde nel presidio del territorio. Negli ultimi anni i magistrati di Palermo hanno arrestato quasi tutti i familiari di Messina Denaro: sorella, cugini, cognati, nipoti. Sono arrivati centinaia di sequestri di beni intestati a prestanome, confische che complessivamente superano il miliardo di euro. Nonostante ciò il sistema malavitoso non si ferma e va in aiuto a imprenditori in difficoltà o commercianti sull’orlo del baratro. C’è convenienza, ma anche compiacenza. E quindi gli imprenditori che hanno contatti con il latitante lo proteggono, nonostante in passato fosse stato offerto un «regalo» milionario da parte dei servizi segreti italiani a chi avesse contribuito con informazioni utili al suo arresto. Torna l’omertà, e il welfare mafioso rafforza il latitante trapanese. L’azione di proselitismo della cosca è stata ben documentata dagli investigatori. I Messina Denaro hanno continuato a praticare «nelle zone di propria influenza quella sistematica opera di assistenza mutualistica, da sempre particolarmente cara alla compagine mafiosa perché perfettamente consapevole dell’energia che a tempo debito avrebbe potuto trarne, finalizzata ad assicurarsi consenso e disponibilità incondizionata dei soggetti beneficiari, secondo un processo di fagocitazione culturale ormai secolare, mirato a determinare una dipendenza psicologica, ancorché materiale, nelle genti di Sicilia, sostituendosi in tutte quelle forme di tutela in cui le Istituzioni preposte, muovendosi attraverso l’intercapedine della lenta macchina giuridica e burocratica, si sono sovente dimostrate insolventi» affermano gli inquirenti nell’inchiesta «progetto Belice». Le indagini hanno dimostrato in questi anni quanto conta il sostegno economico prestato ai familiari degli uomini d’onore detenuti. Le conversazioni intercettate ci danno esempi lampanti. Fra i tanti casi c’è quello di due favoreggiatori del boss trapanese che discutono di alcune attività imprenditoriali, e uno di loro spiega come Cosa nostra si comporti anche da società di mutuo soccorso a favore dei propri affiliati: avrebbe destinato i primi guadagni derivanti dall’attività economica di una di queste piccole fabbriche a tale Laura, la moglie di un boss trapanese detenuto che aveva speso tanti soldi per gli avvocati. Lo stesso trattamento veniva riservato ad altre persone che avevano bisogno di assistenza economica. Gli inquirenti evidenziano come negli anni passati «in un tessuto sociale profondamente depresso per motivazioni etiche ed economiche quale il comprensorio di Castelvetrano», u Siccu «non si sia limitato a cooptare nuovi adepti tra le frange meno abbienti ed acculturate della civile società, ma è riuscito ancor oggi, novella araba fenice, a ricostruire adeguati canali d’infiltrazione anche in quei ceti che, per estrazione o per grado culturale, una certa pubblica opinione vorrebbe ormai privi di ogni condizionamento, immuni al credo mafioso». Dopo venticinque anni di latitanza gli investigatori riscontrano ancora sul territorio il forte attaccamento dei siciliani del trapanese a u Siccu, il quale viene «santificato», «venerato» e «osannato». C’è una conversazione registrata il 10 marzo 2018 tra Vittorio Signorello e Gaspare Como, in cui il primo arriva addirittura a paragonare i Messina Denaro ai «santi», in particolare u zu Ciccio, il padre di Matteo, cui secondo Signorello si dovrebbe fare una «statua» da affiancare a quella di Padre Pio. È una venerazione, quella di Signorello, che lo porta a dire pubblicamente, «anche a costo di essere arrestato», che Matteo Messina Denaro, nonostante sia uno «stragista», è per il mafioso trapanese «da preferire all’attuale classe politica» che è a suo dire «sporca e corrotta». Per lui u Siccu «si deve seguire fino alla morte». «È potuto essere stragista... a me... le cose giuste... mangia e fai mangiare... voialtri tanto mangiate... [i politici] state facendo diventare un Paese... l’Italia è uno stivale pieno di merda... le persone sono scontente... questo voi fate... arrestatemi, che minchia vuoi? Fino alla morte...». Le sue parole sono state premonitrici: pochi giorni dopo Signorello è stato arrestato. U Siccu ha quindi una vasta schiera di favoreggiatori, in varie fasce della popolazione. Questo però non gli ha impedito di farsi scudo con l’arma del sospetto, fiutando le trappole e selezionando gli uomini cui affidare la sua sicurezza: c’è sempre qualcuno disposto a sacrificarsi per lui pur di favorirlo e coprirlo, nelle retate e negli affari. Ecco perché ha ridotto i contatti con i mafiosi delle altre province. Loro lo cercano per consultarlo, ma lui non si fa trovare. Risponde solo a pochissimi, attraverso i pizzini. Non cede alle lusinghe di chi vede in lui l’unico personaggio carismatico in grado di rilanciare una strategia globale di Cosa nostra, decimata da arresti e carcere duro: lo scettro non gli interessa, a Matteo interessano gli affari di casa propria, perché sono quelli che gli garantiscono la libertà. E così confina il suo vantaggio nel feudo trapanese, senza mettere becco nei giochi di potere della Cupola. Egoismo criminale? Difficile a dirsi.
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