Corriere della Sera, 30 gennaio 2023
Manganelli innamorato
È un romanzo d’amore, quello che Giorgio Manganelli scrive a Ebe Flamini tra l’agosto 1960 e il marzo 1973. Ha per titolo un bellissimo ossimoro, Mia anima carnale , raccoglie venti lettere e viene pubblicato ora da Sellerio grazie alle amorevoli e sempre simpatetiche cure di Salvatore Silvano Nigro. È un romanzo d’amore che assume forme molteplici, oscillanti dal dolce-sentimentale, all’ironia, al grottesco, all’avventura, alla sensualità più esplicita. È un Manganelli che conoscevamo solo in parte attraverso Lettere senza risposta, le lettere a Viola Papetti, pubblicate qualche anno fa da Nottetempo. L’anglista Papetti fu, da un certo momento in poi, un amore parallelo e contemporaneo a quello con Ebe, compagna di una vita. Ebe Flamini, classe 1917 (lui del 1922), educatrice, partigiana azionista, fondatrice del Movimento di collaborazione civica, custode di una scatola di cartone contenente materiali manganelliani (tra cui le lettere) rinvenuti alla sua morte (1992) in un sottoscala. In un appunto di diario, dell’agosto 1973, Ebe riportava una confessione di Giorgio relativa alla passione per la più giovane Viola: «Sento di non poterne fare a meno (…). Cerca di capire che si può voler bene a più persone».
Se le lettere a Viola si estendono dall’estate 1966 al febbraio 1973, quelle a Ebe le precedono di sei anni e vi si sovrappongono, dopo un lungo vuoto, nell’ultimo triennio, quando capita che Giorgio, in viaggio tra Africa e Thailandia, scriva ad ambedue nello stesso giorno con toni simili.
Il vero romanzo d’amore è però Mia anima carnale, con la sua intimità aperta alle ansie, al mondo, agli amici, al lavoro. Sin dalla prima lettera, dell’8 agosto 1960, in cui entrano in gioco personaggi che ritroveremo qua e là: a cominciare dal caro amico Augusto Frassineti, funzionario ministeriale e notevole scrittore satirico; e da Giuliana Benzoni, «la Gran Dama dell’antifascismo italiano» (così Nigro), affascinante attivista e personaggio-chiave del bel mondo romano frequentato dalla Flamini. Una invitante porta di ingresso, questa prima lettera, in cui il Manga squaderna il suo repertorio metaforico parlando di sé come di un «ghiottone» che attende «un fastoso antipasto, barocco e fratesco». L’antipasto è ovviamente lo scambio epistolare con Ebe. La quale ha voce nella narrazione essenziale di Nigro, pronto a ricostruire i fatti e i contesti, citando spesso, nelle avvolgenti note finali, le risposte dell’amata, non di rado acute, piene di humour («La scusa della pregustazione, a giustificare il lungo intervallo a farti vivo, non è valida. Ti salvi solo in quanto parli di antipasto»), talvolta piuttosto tranchant: «Ed ora basta. Sempre così dovremo parlarci; tra inchini e salamelecchi?».
Nel festoso vaneggiamento verbale del Manga non mancano punte di angoscia, per esempio nel Natale 1963, allorché accenna al «sacro orrore» che nutre per sua madre, precisando: «È una storia oscura: peccato che le cose siano andate così». Il «vipistrello materno» viene evocato da Nigro come «l’uccellaccio infausto che con la sola presenza causava al figlio angosce terribili». Addirittura, dalla casa di Torino, le «magherie di mammina» gli impedivano di telefonare a Ebe. A parte ciò, in effetti qualche salamelecco non ce lo risparmia la prosa epistolare di Manganelli, con le sue astrazioni fortemente visionarie meglio quando autoironiche. Superato l’antipasto, dice, sempre alludendo al rapimento estatico per Ebe: «Ormai sono avviluppato in brodi bollenti, spinaci butirrosi, nuoto in intingoli di spezie e droghe».
Se per Manganelli la letteratura è menzogna, non è detto che le lettere siano verità, nonostante le impennate liriche («Ebe carissima. Luogo per carezze. Collina da descrivere con movimenti di mani, scaltre e amorose, competenti e scattanti: occhiute carezze di cieco»). Ebe risponde alle «verbolerie» iperboliche di Giorgio esigendo una romantica ma concretissima gita in Lambretta per le strade di Roma. Il «deliquescente» Manganelli incalza con le metafore di cui è maestro impunito: non solo rivede l’amata «fragile e regale nella tua vestaglia a quadri rossi e bianchi», ma vorrebbe riscaldare quell’«anima di cerva» «nel sacco a pelo della golosa memoria». Fiero che le sue mani siano state apprezzate da Ebe, le rimprovera però un «bel distacco archeologico».
Da tanto «doloroso amore» che di fronte al silenzio di lei rischia sempre di perdersi nella disperazione, Giorgio riemerge euforico e patetico quando arriva l’attesa lettera di Ebe: «Mia patologia (…), mia rissosa tenerezza (…), mia febbrile alterazione». La sua «deliriumtremante» «timidezza patologica», presa in cura dal famoso psicoterapeuta junghiano Ernst Bernhard, non impedisce al «mandrillo con gli occhiali» di osare: «Cara la mia cotogna, tu mi sembri un morbido, sugoso frutto autunnale, di quelli che abbisognano di gran tempo per maturare tutti i loro succhi intrinseci». E ancora di più: «Ora sei nespola, ananasso, pompelmo e cotogna. E io ti voglio mangiare, ammannita sul desco delle tue lenzuola». Manda bacioni e morsi, e più in là uscendo dall’allusione vegetale indugia sulla topografia fisica dell’amica, percorre la «coppa rotatoria dell’ombelico, asciutto, svelto», elogia il ventre «di lene convessità»: «Una bianca pasta di pane che ho lavorato con le mie mani, una collina che ho tutta brucata con le mie mani». Si sofferma su «quell’oasi, quel pozzo profondo, quella voragine buia», sul «lucus numinoso del pube: di vegetazione rada e folta», si inoltra senza pudore nell’«ingresso delle viscere buie e calde, l’angusto corridoio senza luce...».
Tuttavia, se a tratti si dichiara rovente, a tratti si sente «scorbutico e litigioso, rustego e orso, taciturno e riservatissimo», «un tocco di legno, una polenta rafferma, un cardo selvatico» e, dopo un eccessivo distacco dall’amata, si dichiara tanto confuso che: «Non so neanche più di che sesso sei». Ebe lo asseconda, con qualche asprezza, per esempio quando lui vanta «una certa facilità di amori intensi» (6-7 in sette anni): «Un buon ritmo, vivaddio!». Lo asseconda pur consapevole di non riuscire a «stare alla pari», tanto più dopo una lettera in cui il Manga le imbastisce un’orchestra immaginaria, fantastica e maestosa di arpe e violoncelli e grancasse. In compenso è lei che trascrive a macchina Hilarotragoedia, il romanzo d’esordio di Manganelli, la cui prima stesura, fa notare Nigro, si colloca tra fine 1960 e inizio 1961, mentre l’uscita, presso Feltrinelli, sarà del 1964. Colpisce un fatto: conservata su carta carbone, la lettera narrativa del 19 ottobre 1960 presenta alcuni termini tecnici («pseudopòdi»), neologismi («deliriumtremante») e immagini (l’imbuto auricolare) che ritroveremo nel romanzo quasi che l’epistola fosse, osserva Nigro, un laboratorio sperimentale in vista dell’opera letteraria.
È tutto da leggere e da apprezzare, infine, il repertorio epistolare «de lonh», ormai meno ringhiante che in passato: quello che viene inviato a Ebe dalle missioni di lavoro (e di scrittura) africana e asiatica. Nel marzo 1970 una società internazionale impegnata nel progetto di un’autostrada transafricana ingaggiò Manganelli per redigere un rapporto narrativo. Dalla Tanzania prima, poi dal Kenya, dall’Etiopia, dal Cairo, saranno esilaranti, a volte sovreccitate lettere in cui il Manga sottolinea, del viaggio, la felicità terapeutica, sovrastante nettamente la stanchezza o il malumore. Persino una gita in barca su un lago «formicolante di coccodrilli» a sud di Addis Abeba diventa un’avventura «ubriacante».
E da qui, fino alle trasferte in Malesia e in Thailandia del 1973, è l’aggettivazione a trionfare: se in generale il mondo africano ha «qualcosa di preistorico, di preumano» dove «l’uomo è patetico ospite», Addis Abeba è «mostruosa», un «deposito di angosce». «Ho visto cose angosciose, cose stupende, cose allegre, cose cupe; ma sempre mi ha sconvolto la loro dimensione, che noi europei non conosciamo», scrive da Mombasa, dove il caldo è «spaziale» e «il cielo è basso, lo si porta sulla nuca»; le piogge furibonde e indifferenti».
La Malesia è dolcissima, «elusiva e cordiale», Kuala Lumpur è «ridicola e divertente come uno scenario da operetta d’ambiente orientale, tutta falsa», «simpatica, provinciale, incasinata, milanese e napoletana». E Malacca «è una delle cose più straordinarie, più struggenti, più fascinose che io abbia mai visto». Iperbole, sempre iperbole, chissà quanto verità, chissà quanto menzogna.