la Repubblica, 30 gennaio 2023
Kureishi dall’ospedale al social
L’UomoSenza Mani – così si firma ultimamente su Twitter – confessa di sentire una connessione, un legame speciale con chi legge le sue parole in questa lunga convalescenza.Nell’immagine scelta per il profilo, lo scrittore Hanif Kureishi non nasconde che lo scenario della sua vita è cambiato radicalmente; e d’altra parte alle qualifiche canoniche – è l’autore di My Beautiful Laundrette e del Buddha delle periferie – ha aggiunto lui stesso quella di autore di «dispacci da un letto di ospedale». Nella lunga intervista concessa aRepubblica ieri e recuperabile sul sito, Kureishi ha raccontato l’umiliazione vissuta nell’accettare la dipendenza dagli altri per via delle lesioni determinate da un grave incidente domestico.Appena qualche giorno dopo, sfidando i propri stessi limiti, Kureishi ha cominciato a raccontarsi sui social, nel suo blog e in una newsletter: a fare con la scrittura un esperimento che non è solo di natura confessionale. «Il trauma – ha spiegato – ha fatto germogliare in me una nuova creatività». Pensieri che vengono «da una vita abbastanza lunga» (ricordi di esperienze letterarie e non, incontri, amicizie, osservazioni sul mondo circostante e remoto): l’esplorazione quotidiana di quella che lui stesso definisce «realtà alternativa». Con uno slancio intellettuale, una precisione emotiva, un misto di ironia e di elegia che spesso rendono quelle frasi commoventi. È paradossale (e anche un po’ spiacevole) ma è come se la forza dello stile reagisse intensamente all’intensità di un’esperienza imprevista e disarmante: quella – appunto – di una malattia. In un saggio di quasi un secolo fa, Virginia Woolf manifestava la propria perplessità di fronte allo scarso numero di romanzi e saggi dedicati alla salute compromessa: «Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza, poemi epici alla febbre tifoidea, odi alla polmonite, liriche al mal di denti». E invece – è costretta a concludere Woolf – perfino la letteratura sembra trascurare la prepotenza di un corpo che sta male, che non funziona come dovrebbe. Guardare in faccia ciò che il corpo, «servito dalla mente», è costretto a vivere nella solitudine di una camera da letto richiede un coraggio da domatore di leoni, «una vigorosa filosofia; una ragione radicata nelleviscere della terra». Il linguaggio, di fronte alla malattia, si prosciuga: per questo, l’inattesa risposta che un altro autore britannico dà, un secolo dopo Woolf, a quella petizione, è stupefacente. Dimostra almeno due o tre cose: la possibilità di sfidare certi tabù sociali (parliamo ancora di cancro come del «brutto male» e stupidamente, di chi si ammala, come di un guerriero), di parlare senza esibizionismi o pose pietistiche, ricattatorie, con dignità e intelligenza. E dove azzarda questa sfida Kureishi? Sui social! Nel luogo immateriale cioè in cui alligna anche il linguaggio più sciatto e greve che sia dato adoperare. In quelle frasi brevi, brevissime, lampi di acume e di esattezza, Kureishi dà – letteralmente – una lezione di stile al pezzo di mondo che lo segue e lo legge. È come letteratura che nasce altrove, dove non ci si aspetterebbe che nasca, letteratura fuori dal perimetro del letterario, e perfino da quello del mercato editoriale. Che cos’è che rende uno scrittore uno scrittore?L’insostituibilità delle sue parole; il fatto che ci spinga a pensare: non avrei saputo dirlo meglio.Ecco, no, non potremmo dirlo meglio. Non sapremmo dirlo meglio. Il dovere di uno scrittore – ha ricordato di recente Zadie Smith, un’altra autrice britannica per cui l’opera di Kureishi è stata molto importante – è compiere «atti linguistici». Un dovere di cura nei confronti del linguaggio, un lavoro da fabbricanti e custodi delle parole. Anche quando dire, parlare – su un piano del privato come sul piano del discorso pubblico – sembra impossibile.