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 2023  gennaio 30 Lunedì calendario

Guerra senza fine in Congo

Hanno impiegato pochi minuti, padri, madri, bambini anche piccolissimi, nessuno ha avuto bisogno di parlare. Sanno cosa bisogna fare. E soprattutto sanno farlo in fretta. Mi stupisce ancora vedere come bastano pochi istanti per diventare un profugo, per attrezzarsi alla condizione umana del profugo. Soprattutto in Africa. Perché questa gente ha la rapidità di chi non può perdere niente perché non ha niente. Può mettersi in cammino senza voltarsi indietro. Lascia al villaggio una capanna, quasi sempre vuota, o nella radura dove ci si rannicchia sperando in tempi migliori un vecchio sacco alzato su due pali di legno. Nessuno gli ha insegnato a organizzare la partenza, semplicemente lo sanno.

Da trent’anni nella zona dei Grandi Laghi dove domani arriva il Papa c’è la guerra. La aspra lezione passa da padre in figlio, da generazione a generazione. Cambiano gli attori: eserciti che assomigliano a torme di briganti e briganti che dicono di essere eserciti, ci sono 120 gruppi armati in questa parte del Congo dove qualcuno di loro ha ucciso l’ambasciatore italiano Attanasio. Poi ogni tanto la guerra si fa grossa, come ora: questa è la seconda o la terza guerra mondiale africana? Chi si ricorda... ruandesi, ugandesi, congolesi e poi i caschi blu inutili se non dannosi, soldati kenioti in aiuto del governo, e poi le milizie, hutu, tutsi…

Allora bisogna partire. Subito. Il segnale l’hanno dato i colpi di mitra. Vicini. Molto vicini. E la voce si è diffusa come il fuoco tra le stoppie secche: i soldati congolesi in rotta si sono aperti la strada sparando tra i commilitoni al posto di blocco. I ribelli arrivano... perché sono già a Kibumba a venti chilometri dalla capitale del distretto, Goma...non c’è più tempo.

La madre prende i sacchi o le borse di plastica. Guardiamoci dentro: cenci che sono vestiti, le camicie dei figli che passano dall’uno all’altro con il crescere dell’età, qualche pezza di stoffa in cui le donne si avvolgono, regali dell’ultima campagna elettorale di Tshisekedi, la faccia del presidente che nessuno ha mai visto, che vive laggiù a Kinshasa, a migliaia di chilometri stampata davanti e dietro come un poster. Il padre si carica sulle spalle il materasso che è il bene più prezioso della famiglia, i bambini invece le latte di plastica con cui si andrà ad attingere l’acqua; la plastica, modernità leggera a portata della fatica dei poveri che ha sostituito la latta e l’orcio. Qualcuno, i ricchi, spinge la bici che sussulta sotto un carico impossibile. Ogni tanto su di loro passa un caccia dell’aviazione congolese sibilando, va a sganciare, inutilmente, bombe nella foresta dove forse c’è il nemico. Nessuno alza la testa a guardare, come se non ci fosse rumore. Ai lati sta ritta la foresta, funerea tetra muta, sembra carne in cui è stata tracciata la ferita della strada.

Si sono messi in cammino a migliaia, con quella andatura infaticabile che hanno gli africani quando fuggono o semplicemente attraversano i loro spazi senza fine. La fila si è formata subito, per chilometri, con i più lenti che via via restano indietro. Hanno paura. E la loro non è la paura senza storia che si attribuisce con razzistica sufficienza agli africani: spavento senza nome, eterno e oscuro. Sanno da dove viene il pericolo, che divise ha. L’Onu dovrebbe difenderli, invece li conta e sono già quattrocentomila.

La strada è sempre quella che conduce a Goma, la capitale del nord Kivu, si chiama Nazionale 2, l’unica degna più o meno di questo nome. Molti dei fuggiaschi la conoscono bene, l’avevano percorsa già nel 2012 quando i ribelli, sempre loro, sempre la stessa sigla, «M 23» la usarono per inseguire l’esercito regolare, anche allora in fuga. E presero Goma e la tennero per alcune settimane. Qui ci sono solo tregue, non pace. Camminano, i più, a piedi nudi sul sentiero accanto alla strada come se ne avessero paura. A guardarli mentre sfilano si prova una sorta di attrazione fatale, il dolore per tutto quello che subiscono, la stanchezza dello spirito per filmati che abbiamo visto proiettati e riproiettati mille volte. Sono il popolo dei profughi, l’immagine vera del terzo millennio. Se vi uniste a loro scoprireste che la vera gioia della vita sono minuscole cose, un respiro che non provoca fitte dolorose, una scatola di biscotti distribuito dalle organizzazioni umanitarie, un rudere dove ripararsi a Goma.

Sulla strada asfaltata passano nella stessa direzione, indifferenti, i camion dei soldati congolesi. Hanno mimetiche sudice, baschi dai mille colori, elmetti sbilenchi, la maggior parte con l’aria di adolescenti, il solito esercito straccione e bandito, implacabile nel saccheggio di quelli che dovrebbe difendere e inutile in battaglia.

L’offensiva dei tutsi di «M23» è iniziata a ottobre. Vanno svelti. Scavalcati i posti di frontiera con il Ruanda, dove i loro depositi e il loro burattinaio dall’ambiguo carisma, Paul Kagame, il presidente ruandese, sono dilagati nel Rutshuru, un lenzuolo di verde profondo che sfama tutta la regione. Poi hanno agguantato perfino Rutshuri e Kiwanja due importanti centri commerciali. Secondo un accordo firmato a Luanda avrebbero dovuto ritirarsi entro il 15 gennaio. Ma a Luanda nessuno li ha invitati. Così hanno ripreso ad avanzare.

Nella più grande base militare del Kivu, a Rumangabo, avreste dovuto incontrare, in cerca di sicurezza nel caos, i caschi blu della missione che dal 1999 è una delle più costose, inutili e vergognose pagine della storia delle Nazioni Unite che pure di lacrime non è povera. Invece sono fuggiti anche loro. «Ritirata tattica», ha giustificato senza vergogna il comando Onu che dovrebbe esser qui per proteggere anche i 200mila fuggiaschi. La gente non li sopporta più, gli inutili soldati della pace.

Sono in guerra Ruanda e Congo. Kinshasa, che non controlla per incompetenza, brutalità e corruzione l’est del Paese, accusa il regime di Kigali di aver invaso il suo territorio: il complotto tutsi. Non ha torto. La milizia «M23», (uno dei comandanti è già stato condannato per crimini di guerra), è il braccio armato con cui il Ruanda controlla da decenni i suoi interessi e le sue mire sul territorio vicino. I miliziani li arruola tra i tutsi che da secoli vivono nel Kivu, pastori che seguendo le mandrie hanno trovato pascoli e terra fertile nell’immenso Congo. I tutsi ruandesi, i prussiani d’Africa, temprati dai genocidi e dall’esilio, in trent’anni hanno creato la nazione più moderna del continente, ma anche la più efficiente nel controllo di ogni dissenso. Paese piccolo, privo di materie prime, e sovrappopolato, sognano di aprire l’immenso scrigno dei minerali del Congo, corrotto, primitivo, inefficiente, sempre sull’orlo del collasso. Un esempio: l’oro costituisce il 75 per cento delle esportazioni del Ruanda, la maggiore quantità viene estratto illegalmente nel Kivu.

Kigali ribatte come sempre: «M23» dà la caccia ai terroristi del Fronte democratico di liberazione del Ruanda a cui Kinshasa offre rifugio. Erano in origine, nel ‘94, gli «interahamwe», hutu responsabili del genocidio ruandese fuggiti nel Paese vicino. Ma ormai sono ridotti a poche centinaia e l’ultimo attacco al di là della frontiera risale al 2001.

Anche l’Uganda schiera soldati nell’est del Congo. Li aveva invocati Tshisekedi, disperato, perché lo aiutassero a normalizzare un territorio nel caos. All’Uganda interessano i minerali congolesi come al Ruanda. E i figli del presidente Museweni chiamano Kagame lo zio. I profughi camminano verso Goma, con speranza.