la Repubblica, 30 gennaio 2023
Lavoro, vedono nero due italiani su tre
Non è un buon periodo per l’economia, in Italia. In particolare, per il mercato del lavoro. Gli anni del Covid hanno indebolito il Paese e, nonostante gli interventi e i finanziamenti offerti dall’Europa, la “resilienza” appare sempre più complicata. La “ripresa”, fatica a “riprendere”. Mentre il tempo passa. E il futuro si accorcia.
Questa situazione dura da tempo e determina conseguenze chiare, se scorriamo le indagini e i rapporti puntualmente condotti dagli istituti statistici nazionali ed europei. Se osserviamo i dati proposti da Eurostat, l’Istituto statistico dell’Unione Europea, l’Italia continua ad apparire fra i Paesi con il minor tasso di occupazione. Molto lontano da Germania e Francia e più vicino, invece, alla Grecia e alla Spagna. Che, tuttavia, negli ultimi anni ha conosciuto una crescita significativa.
L’Italia, in particolare, da maggio a giugno 2022, ha fatto registrare la variazione percentuale assoluta del tasso di disoccupazione più alta (+1,9%), rispetto agli altri Paesi dell’Unione europea. Una tendenza che ha coinvolto soprattutto i più giovani. Fino a spingere l’indice della disoccupazione giovanile oltre il 23,1%, rispetto a una media Ue del 13,6%.
Inoltre, continuiamo a registrare la più alta presenza di Neet. Circa il 23% dei giovani italiani, infatti, non studia, non lavora e non partecipa ad alcun percorso di formazione. Naturalmente le differenze territoriali non si osservano solo sul piano europeo. Ma, com’era prevedibile, anche in ambito nazionale. I tassi di disoccupazione più elevati, infatti, si rilevano nelle Regioni del Sud. In particolare, Campania, Sicilia e Calabria.
Si tratta di aspetti già noti, che non sorprendono. Ma, al contrario, si riflettono nelle percezioni dei cittadini. Nell’opinione pubblica. E per questo tendono a divenire “normali”. Non “eccezionali”. Tendenze “date per scontate”. Se osserviamo i dati rilevati da Demos, nel 25simo Rapporto: “Gli italiani e lo Stato”, pubblicato il mese scorso sulle pagine di Repubblica, emerge come la quota di persone “soddisfatte dell’andamento economico dell’Italia” sia appena superiore al 31%. Mentre l’anno prima, a fine 2021, sfiorava il 39%.
Questa visione appare ancora più pessimista e negativa se si guardano le prospettive sotto il profilo “generazionale”. Infatti, un’indagine condotta nei mesi scorsi da Demos per Unipolis inambito europeo, dimostra come, in Italia, solo una frazione, il 7%, ritenga che “le opportunità di lavoro dei giovani siano migliori rispetto alle generazioni precedenti”. Mentre oltre i due terzi, il 67%, pensano che, al contrario, li attenda un futuro peggiore. In generale, l’atteggiamento degli italiani, a questo proposito, appare decisamente pessimista. Praticamente senza speranza. Molto più di quanto emerga negli altri Paesi europei analizzati. Non solo Germania, Francia e Regno Unito, ma, ancor più, in Polonia.
Tuttavia, è interessante notare come l’approccio divenga più negativo al crescere dell’età. La preoccupazione, infatti, appare generalizzata, ma sale, in modo evidente, oltre i 45 anni. E, soprattutto, quando si superano i 65. In altri termini, fra i genitori e i nonni.
Oltre i 20 anni, dunque, si perde l’orizzonte. L’idea, la stessa immagine del futuro. Riguardo al lavoro. Ma, naturalmente, non solo. Perché il lavoro costituisce la risorsa che dà fondamento e spazio al domani. Disegna e proietta il futuro. Per questo motivo, se non si riesce a immaginare un domani, per il lavoro dei giovani, il rischio è che, semplicemente, il domani si perda nella nebbia. E affondi in un presente infinito. Cioè, senza “finis”. Senza confini. Perché il futuro dei giovani non riguarda solo i giovani. Ma tutta la nostra società, visto che i giovani sono il (nostro) futuro.
D’altra parte, è ormai da 6 anni che la popolazione, in Italia, cala costantemente. Nel complesso: 1 milione e mezzo di persone in meno. Non solo a causa del “declino”, ma del “movimento” demografico. Perché, dall’Italia, a partire sono prevalentemente i giovani, come ha rammentato, fra gli altri, il Presidente Sergio Mattarella. Partono per ragioni di studio e di lavoro. E, sempre più spesso, non ritornano. Così, mentre l’attenzione e le polemiche, in Italia, si concentrano soprattutto sugli immigrati che arrivano dall’estero, dall’Africa, “l’emigrazione dall’Italia” cresce. E sposta (meglio ancora: “esporta”) oltre i nostri confini risorse importanti. Di professionalità, cultura, formazione.
Per questo converrebbe preoccuparsi del nostro futuro provvisorio. Precario. Perché, come abbiamo già scritto altre volte, rischiamo di diventare un “Paese sospeso”. Senza futuro. E senza memoria. Un Paese “provvisorio”. Che non guarda avanti. Ma si aggrappa a un presente sconfinato.