il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2023
Scioperi, amplessi e razzisti hanno reso “L’Egitto eterno”
Erodoto lo descrive come un “mondo alla rovescia”, dove i fiumi scorrono da Sud a Nord e “le donne urinano in piedi”. Forse è proprio per questo che l’antico Egitto ci piace da morire, letteralmente. Si narra che Jean François Champollion, l’egittologo che nel 1822 riuscì a decifrare i geroglifici dalla stele di Rosetta, non appena vide arrivare l’obelisco di Luxor lungo la Senna stramazzò a terra esanime. A duecento anni dalla scoperta, l’uomo odierno rischia di fare la stessa fine; se non per la bellezza (o la maledizione) del corredo funerario di Tutankhamon, quantomeno per la percentuale di Pil che i faraoni dedicavano alle piramidi (e quindi a loro stessi). Piccolo spoiler, dunque, per chi si addentra nella mostra I creatori dell’Egitto eterno, allestita nella Basilica palladiana di Vicenza: il visitatore scoprirà che quasi il 40 per cento delle casse dello Stato finanziava il business della sepoltura. E non è l’unica stramberia di questa civiltà millenaria presentata sempre dal lato più appariscente.
Lo spunto controcorrente arriva proprio dall’esposizione curata dal direttore del Museo Egizio di Torino, Christian Greco. Niente più tesori scintillanti. O almeno, non solo quelli. Questa volta i protagonisti sono “scribi, artigiani e operai”, come recita il sottotitolo dell’evento. Quasi duecento manufatti fra steli, vasi e altri utensili provenienti anche da Torino e dal Louvre raccontano la vita di Deir el-Medina, un villaggio di 120 famiglie al servizio del faraone e della sua dipartita. Schiavi o uomini liberi? Entrambi, si tende a dire oggi. Le assenze in cantiere erano giustificate in caso di lite con la moglie, oppure di malattia dell’asino domestico. E questo già bastava a fare dell’antico Egitto un “paradiso” per la classe operaia, rispetto ai vicini Greci e Romani. Certo, i lavoratori erano tenuti sott’occhio. Come testimoniano i “Giornali della Necropoli”, i turni – fra pause e corvée gratuite – erano minuziosamente rendicontati. C’è traccia pure degli scioperi. Il primo della storia sembra sia stato indetto sotto il regno di Ramses III. Poi, però, non si sa bene come il faraone abbia placato gli animi, visto che fece uccidere il figlio-ribelle mummificandolo con mani e piedi legati.
Gli stranieri, comunque, se la passavano peggio. I popoli confinanti erano considerati alla stregua di “non-persone”. Nasoni, occhi a mandorla e capelli ricci: le fattezze stereotipate dei nubiani sugli ostraka mostrano che il razzismo non era affatto censurato. Contrariamente a quanto si può pensare, invece, le donne venivano rispettate. Gli ushabti in faience ritrovati nella tomba di Nefertari, ed esposti sotto le volte del Palladio, ne sono un esempio. Non mancano però le regine chiacchierate, come Hatshepsut. Bella e potente, ha regnato per vent’anni circondata da servitori e malelingue. Una manina dell’epoca la raffigura sulle pareti del tempio intenta in un licenzioso (quanto audace) accoppiamento con un manovale. Gossip a parte, nelle immagini ufficiali la “Monna Lisa dell’antico Egitto” preferiva avere gli attributi maschili, socialmente più accettati. Non davano scandalo, infatti, le effigi del dio Min armato di flagello e con il pene sempre eretto. La cosa curiosa è che l’effetto afrodisiaco pare fosse dato dalla lattuga che riceveva in dono. Devono averlo pensato anche gli organizzatori della mostra: tremila anni di storia sono decisamente troppi per ridurli a qualche mummia e non raccontare cosa c’è dietro.