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 2023  gennaio 29 Domenica calendario

Intervista a Mario Maffucci

Mario Maffucci il cavallo rampante della Rai lo ha cavalcato. A lungo.
Da dirigente e responsabile ha galoppato su Fantastico («Ho affrontato i celebri silenzi di Celentano. Ero lì, in studio»), su Domenica In («Il più bravo di tutti è stato Corrado») e soprattutto ha conquistato le praterie musicali, discografiche e televisive di Sanremo: è stato lui a risollevarlo dai bassifondi della serata unica, del playback e dell’anonimato senza orchestra. È stato lui a capirne le potenzialità e a ergerlo a sistema. Bongiorno e Chiambretti, Vianello ed Herzigova, Fazio e Pavarotti sono alcune delle accoppiate che hanno messo dei punti fissi alla storia della tv («Però Pavarotti per me è un grande dolore»).
Con lei il Festival ha cambiato rotta.
Un po’ è vero; (pausa) quando per la prima volta arrivo a Sanremo scopro che era tutto affidato a una squadra esterna, di Rai c’era poco o niente. Io, esterrefatto, penso sia una follia. Così torno in azienda e inizio a spiegare l’errore e la potenzialità dell’evento. Da allora è stato un crescendo, con persone dedicate al Festival e una programmazione che, tra prima e dopo la gara, ha iniziato a occupare due mesi del palinsesto.
Non tutto fu immediato.
No, ma una progressione costante con tante piccole o grandi rivoluzioni.
Come nel 1987 quando Baudo rompe una liturgia e dà in diretta l’annuncio della morte di Claudio Villa…. Oggi può sembrare poco, ma per il tempo è stato un gesto fenomenale che ci porta direttamente all’oggi e al collegamento esterno con il presidente ucraino Zelensky; (cambia tono) allora Baudo fu bravo a portare sul palco un’attualità che aveva un’interazione forte con il Festival: Villa era un’icona musicale.
Mentre Zelensky ora?
Non sono d’accordo, mi sembra una scelta che porta a spettacolarizzare una guerra tremenda; una realtà che mi pone molti interrogativi; (pausa) ormai rientra nella tendenza del Festival quella di passare da spettacolo a contenitore.
Un contenitore con 28 brani in gara.
Sanremo non è più una corazzata, ma una flotta: oltre al teatro Ariston c’è un altro palcoscenico, c’è una nave ancorata…
Gigantismo?
Assoluto. In più si sono trasformati gli obiettivi dell’azienda: prima si puntava sull’aspetto artistico, ora si associa quello commerciale.
Da cosa lo deduce?
Chiudere lo show alle due di notte non è umano, serve solo ad allungare lo spazio e incassare più pubblicità.
Fino alle due è un sequestro.
Da mezzanotte alle due è tutto incasso; l’azienda punta a ricavarne il più possibile, come con il televoto: la Rai ha una percentuale.
Il patron di Sanremo vale più di molti ministri.
Per anni Piero Bassetti (politico Dc, ex presidente della Regione Lombardia, ndr) mi chiamava subito dopo la fine del Festival e mi invitava a pranzo: voleva un confronto su Sanremo.
Perché?
Secondo lui quel palco lo aiutava a comprendere i cambiamenti del Paese grazie ai brani, gli abiti o la reazione del pubblico alle canzoni.
Quest’anno si può affondare nelle “reazioni”, come ricordava lei sono 28 i brani in gara.
Amadeus, insieme a Lucio Presta (agente di Amadeus), è stato bravo a mescolare generi e personaggi (apre un settimanale e li analizza).
28 non sono troppi?
Ha dimensioni mostruose; (sorride) un tempo il Festival era molto lineare, era Pippo Baudo più la bionda e la mora. Stop.
Chi sceglieva la bionda e la mora?
Sempre Baudo; (torna a oggi) quest’anno, oltre ad Amadeus, ogni sera ci sarà una diversa presenza femminile e così nessuna di loro rimarrà impressa.
Alcuni simboli sono rimasti.
(Sorride) Sì, l’angoscia per la scala e il cambio dei vestiti.
Nei suoi anni su cosa non si è mai smosso dal “no”?
Il televoto.
Come mai?
Tecnicamente è alterabile, quindi ho preferito introdurre la giuria demoscopica, più tecnica e scientifica.
Le accuse al televoto non sono mancate, stessa storia per le schedine…
Quello delle schedine è stato un anno solo; (cambia tono) comunque per Sanremo è importante definire chi è il campione.
Tradotto?
Chi vince è il campione di chi guarda la televisione o è il campione di chi va ai concerti e acquista i dischi?
Esempio?
La vittoria dei Jalisse (nel 1997 con Fiumi di parole, ndr) non ha rispecchiato l’equilibrio tra i due aspetti; anche il premio della critica agli Avion Travel (1998 con Dormi e sogna, ndr) coinvolgeva più una nicchia di persone.
Una vittoria giusta.
Ce ne sono tante, però mi viene in mente Giorgia; (pausa) non sono mai stato un esperto di musica: questa funzione l’ho sempre delegata.
Frase legata anche a Sanremo: Pippo Baudo è un grande professionista.
E lo confermo: metteva un impegno incredibile sul Festival, con un’ossessione rispetto ai dettagli. Non dimentichiamoci che è uno dei pochi personaggi televisivi diplomato al conservatorio.
Lo ha mai visto agitato?
Eccome! La freschezza, la tranquillità, l’aplomb li riservava per il palco, ma una volta dietro le quinte indossava un altro vestito umano, di assoluta verve (pausa) e va benissimo così.
Preoccupazioni da Festival?
Gli anni delle incursioni tra palco e galleria.
Tipo il presunto disoccupato che minacciava di buttarsi di sotto.
Proprio quello: l’episodio non è mai stato del tutto chiarito, ancora non si sa chi realmente fosse (pausa). Quelli erano gli anni del terrorismo e temevo una bomba in una realtà facile da violare, e il presunto disoccupato aveva messo in evidenza la fragilità organizzativa. Oggi entrare all’Ariston è come varcare il portone della Casa Bianca.
Un merito che si dà sul Festival.
Aver portato un filo di commedia che giustificasse il palcoscenico: penso all’angioletto e al diavoletto davanti a Mike Bongiorno, oppure l’anno di Vianello. Che grande Raimondo (cambia espressione).
Il Festival di Vianello, del 1998, è nato con tanti dubbi.
A lui sono arrivato in seconda battuta perché avevo già opzionato Fabio Fazio, lo ritenevo una novità, tanto da lavorarci tre mesi; alla fine del periodo mi arriva una telefonata dai celebri piani alti: “L’idea non va bene, non è vincente”. E io: “Sono in disaccordo, ma domani vi porto una soluzione”. Così mi presento con una proposta antitetica a Fazio: Raimondo Vianello. Ma con un piccolo problema: a lui non avevo detto nulla.
È andato alla cieca?
Ho rischiato; finita la riunione chiamo Raimondo, lo raggiungo e immediatamente mi arrendo: “Sono nelle peggiori condizioni perché mi trovo davanti a un mostro sacro quando in realtà ho pensato per tre mesi a un altro”. “Non ti preoccupare, nella mia vita ho vissuto molte esperienze e quella di Sanremo mi manca”. Ho respirato.
E…
A quel punto mi butto: “Hai già qualche idea?”. Dopo pochi secondi di silenzio si lancia, ma con la sua flemma: “Baudo si presenta con la bionda e con la mora, io voglio la bella e la brutta”. “Sulla bella non c’è problema, però come si convince una donna a interpretare la brutta dentro la festa dell’effimero?”. “Ci penso io”.
La bella era Eva Herzigová.
A lui piaceva tantissimo, ne era pazzamente innamorato.
La brutta era Veronica Pivetti.
(Qui cambia tono) A tre ore dalla messa in onda della prima serata, mi chiama allarmato uno dei miei collaboratori: “Devi andare da Veronica: è sull’orlo di una crisi di nervi”.
Che era successo?
Aveva letto il copione e capito quale fosse il suo vero ruolo.
Non lo sapeva?
(Sorride) Corro da Raimondo: “Non sei stato di parola, la Pivetti non sa nulla!”. “Uhhhh, hai ragione”. “Vai da lei”; (pausa) non ho mai saputo come l’ha convinta, eppure ci è riuscito.
Come mai non ha coinvolto Sandra Mondaini?
Lui aveva già in mente quel filo teatrale, quel filo di commedia: per dare la suggestione di una sua avventura sanremese con la Herzigová e per giustificarla doveva avere intorno la brutta e non la moglie.
Tutto questo ragionamento lo ha maturato al primo colloquio?
Sì, ma ci riferiamo a un mostro di bravura.
Per tutto il Festival si è lamentato dell’età e della stanchezza.
Anche qui, lui aveva capito un dato essenziale: per stare su quel palco è fondamentale non apparire mai troppo intelligenti, la narrazione va semplificata, altrimenti si è respingenti, non si coinvolge il pubblico. E questo aspetto lo stesso Amadeus lo ha fatto suo.
Tra i super big coinvolti da lei c’è Luciano Pavarotti.
Qui c’è una nota dolente, un rimpianto enorme; per il secondo anno di Fazio era necessario qualcosa di speciale, e penso a Pavarotti. Andiamo da lui. Subito si manifesta entusiasta, ci svela di amare il Festival e nella preparazione decide di coinvolgere Nilla Pizzi per un duetto su Grazie dei fiori. Noi felicissimi. E allora rilanciamo con l’ipotesi un duetto a serata. “Va bene”, la sua risposta.
E Sanremo era fatto…
Sarebbe nato qualcosa di storico.
E invece?
Passano alcuni giorni e ci contatta mesto: “Vengo a Sanremo, ma nessun duetto”. “Maestro, come mai?” Non risponde; (pausa) se riguardate quel Festival vi accorgerete della tristezza con cui Pavarotti, utilizzato come una sorta di notaio, annunciava la pubblicità o presentava i cantanti.
Cosa era successo?
La moglie, Nicoletta Mantovani, era intervenuta, l’aveva messa giù dura, convinta che i duetti di Sanremo avrebbero svilito l’evento di Pavarotti and Friends. Insomma, una cazzata enorme; (cambia tono, addolorato) la moglie è la responsabile della più brutta figura del maestro su un palco.
Un ospite che l’ha delusa.
Cacciammo Morrisey (cantante inglese, ndr) perché non si era presentato alle prove.
Un errore…
Provare a lasciare l’Ariston per il Palafiori: anche se piccolo, l’Ariston ha un altro fascino. Il Festiva è lì.
(Fine della prima parte, la seconda domenica prossima)