Avvenire, 29 gennaio 2023
Il mistero dei promessi sposi
I promessi sposi hanno fatto l’Italia. Chi infatti a scuola non li ha studiati se non letti? E quale italiano, almeno a grandi linee, non ne conosce la storia, le principali vicende e i personaggi più importanti? Eppure, come ci insegna Hegel, «ciò che è noto, proprio in quanto noto, non è conosciuto». A tutti noti, I promessi sposi restano sotto tanti punti di vista sconosciuti, perché sono un’opera-mondo immensa, complessa e enciclopedia. In questo scandaglio delle profondità mai pienamente esplorate del romanzo, ci conduce l’interessante volume di Elena Mazzola, Manzoni tra Mosca e Kiev. I promessi sposi e il mistero della storia (Scholé, pagine 272, euro 20,00).
La densa introduzione ci immette subito nello spirito del libro, attraverso la voce dell’autrice: «Una delle esperienze più entusiasmanti nella lettura è per me il momento in cui il testo rivela la sua struttura profonda, fatta di nessi che sembrano non finire mai: tutto rimanda ad altro, tutto rimanda a tutto il resto, il tutto diventa chiaro quando si vedono i particolari nei loro rapporti». Sì, perché in questo tipo di lettura che potremmo definire esistenziale, sapienziale e vivente si incontra nell’opera una dimensione di costante novità, che è legata a ciò che è profondo e da ultimo al «mistero che non si esaurisce mai».
Colpisce anche la genesi di questo libro «nato tra la Russia e l’Ucraina, tra Mosca e Kiev», dove la Mazzola vive e insegna, «in un momento drammatico segnato da quella peste che è la guerra». Insomma leggere – in questo caso I Promessi sposi – significa anche «vivere, essere uomini» ed «estrarre, tirar fuori» la questione del senso più interiore. L’immagine artistica ha la «capacità di far apparire attraverso di sé l’ultraterreno, di diventare forma subalterna» di un’immagine prima, che la precede: l’archetipo. Ecco perché il tema del padre, problematico nella vita di Manzoni e nel romanzo stesso, non va letta solo in chiave storico-biografica, ma anche come richiamo all’archetipo del creatore, e alla maggiore o minore distanza del personaggio da esso: ad esempio ben altra paternità archetipica e ben altra somiglianza al “padre per eccellenza” rifulge nel Cardinale o in Don Abbondio. Ecco quindi che nasce un leggere da soggetto a soggetto: il libro stesso è un soggetto in relazione con un altro soggetto che è il lettore e anche la scolastica “analisi del testo” potrebbe diventar ben altro: «un incontro tra personalità» che si ascoltano e dialogano, con ricadute pure didattiche essenziali.
Queste fitte premesse metodologiche permettono di rincontrare il romanzo sul piano di alcuni suoi fondamenti anche teologici. Siamo abituati a leggere in questo modo la Commedia, ma dimentichiamo troppo spesso che anche Manzoni è, come Dante, certo artista sublime e popolare, ma insieme poeta teologo e filosofo. Gli spunti in tal senso nel libro di Elena Mazzola sono tanti e pregevoli. Intanto la centralità della parola, che per Manzoni è anche Logos ed è «in principio». Senza tenere conto di questa teologia biblica (e giovannea in particolare) rischiamo di non vedere molti “strati” del libro. Per questo le stesse illustrazioni di Gonin al romanzo sono così importanti per fare di questa parola anche un’immagine, una parola che si fa carne, che non è solo scritta ma vista, iconicamente. E in entrambi i frontespizi (quello “morto” e quello “tipografico”) scopriamo che è Lucia centrale, anche per la sua raffigurazione spaziale, mentre Renzo è nel primo caso un osservatore esterno e nel secondo addirittura assente. Non si dimentichi poi che la Quarantana inizia e termina con immagini: è il ritratto del Pietro Verri delle Osservazioni sulla tortura a chiudere la Storia della colonna infame.
La parola nei Promessi sposi è «gravida d’un senso misterioso», profetico come nel caso di Fra Cristoforo, ma è anche anti-parola, anti-logos, nel latinorum manipolatorio di Don Abbondio, o nelle vili e pilatesche inversioni di Azzecca-Garbugli, che fa giustizia ai bravacci ma non a Renzo perseguitato da don Rodrigo, il cui nome – ancora potere bianco o nero della parola – asservisce e spaventa.
In tutto il romanzo, nelle profondità, rifulge la parola vera, la parola che è sacramento, che è mistero, la parola performante, che fa ciò che dice, e rimanda così al davar biblico e sempre al Logos giovanneo. E Manzoni ci chiama a riflettere: quanto la parola di questo o di talaltro personaggio assomiglia alla Parola, quanto ne è invece la parodia, lo svuotamento eretico ed ariano? Se la parola del Cardinale con l’Innominato è confessante e sacramentale, quella dei giudici della Colonna infame, che estorcono una confessione, ne è il pervertimento.
Scendere nella carne del romanzo fa vedere che il «pane del perdono» di Fra Cristoforo è anche figura dell’Eucaristia, e che Lucia – ancora la sua centralità – è «Luce da Luce», cioè in tutto figura Christi, «sposa» che sta al «piano superiore» e discende «nella stanza terrena», perché lei è «quell’unica figlia, in cui [Agnese] aveva riposta tutta la sua compiacenza», con evidente e pur nascosto eco evangelico.
L’opera-mondo manzoniana resta aperta ad una lettura plurilivellare ed infinita. Anche il senso letterale continuerà ad affascinare i lettori. Ma c’è di più e, se scendi in profondità, troverai altri sensi, altri mondi, e qualcosa del mistero della Parola che sta all’origine ti si schiuderà.