La Lettura, 29 gennaio 2023
Su "In punta di penna" di Yukio Mishima (Feltrinelli)
Cinque personaggi in cerca d’autore. Se non fosse che l’autore ce l’hanno già: Yukio Mishima, lo scrittore che volle farsi samurai, l’esteta che nel 1970 pianificò una specie di colpo di Stato involontariamente da operetta e lo chiuse con un suicidio rituale, il nazionalista cultore della tradizione che pure aveva girato il mondo e del mondo aveva letto e colto il meglio. I cinque personaggi di In punta di penna si scrivono con foga lettere, biglietti e telegrammi, e costituiscono il cast di uno dei romanzi di consumo che hanno accompagnato la vita di Mishima accanto ai capolavori «alti» ai quali l’autore consegnò le proprie ambizioni artistiche.
In punta di penna uscì su rivista a puntate tra il 1966 e il 1967 e ora viene tradotto per la prima volta in italiano (da Alessandro Clementi degli Albizzi), benemerito repêchage di Feltrinelli che sta setacciando il repertorio del Mishima minore. Minore, forse, ma non minimo. Perché In punta di penna (lo stesso può dirsi di altri recuperi, dalla tragicommedia noir Vita in vendita, pubblicata l’anno scorso, agli struggimenti sensuali de La scuola della carne, rarità proposta nel 2013) adotta un format pop ma sembra esasperarne le formule in nome di una visione della realtà e dei rapporti umani arresa a un irrimediabile pessimismo. Nella vita degli uomini non si salva niente: i sentimenti sono corrosi dall’interesse, la speranza è un’illusione e se qualcosa fa girare il mondo, non sono gli ideali ma una shortlist di motivi molto materiali: «1. una grande somma di denaro, 2. prestigio, 3. spinta sessuale». Vi si aggiunge «4. sentimento», nella consapevolezza però che per sentimento può intendersi quasi qualunque cosa.
Cinque personaggi, dunque: Mishima li manovra come i burattini di una commedia umana nella quale tutti hanno tutto da perdere, tranne il lettore, che ci guadagna divertendosi. Un romanzo epistolare a cinque voci (il titolo completo recita In punta di penna ovvero come scrivere una lettera) dove la scelta dei caratteri e delle dinamiche rimanda — sottolinea il risvolto di copertina — alle Relazioni pericolose di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos (1782). E si potrebbero aggiungere, come possibili antecedenti settecenteschi, le geometrie erotiche del teatro di Marivaux o quelle della trilogia operistica di Da Ponte e Mozart: così fan tutti (anche i giapponesi), Figaro convola a nozze a Tokyo e il dissoluto forse verrà punito...
Le parti sembrano stabilite da un capocomico che voglia andare sul sicuro: la piacente donna matura, lo stilista — maturo anche lui — incapace di nascondere la propria rozzezza dietro i modi raffinati, la bella «principiante» apparentemente ingenua, il bel teatrante apparentemente scaltro e lo studente fuoricorso «grasso come una palla» che guarda la tv mangiando noccioline ma ha doti da manipolatore e triplogiochista, definito in corso d’opera «miscela perfetta di tontaggine e astuzia».
Mishima fa dei due protagonisti senior — per restare nei dintorni delle Relazioni pericolose — una marchesa de Merteuil un po’ cafona, «donna genuinamente malvagia», e un Valmont pasticcione. I loro desideri s’incrociano con quelli della coppia giovane, con corteggiamenti e allontanamenti, lusinghe e anatemi. Il girotondo va e gli accoppiamenti si fanno via via più giudiziosi, benché nessun passo sia mai definitivo. L’intreccio si dipana attraverso le lettere, dunque le personalità si modellano da sole, attraverso aforismi e freddure. «Credo che, anche senza morire di fatto, gli amanti commettano suicidio ogni notte» sentenzia con uno slancio melodrammatico la donna matura, sprezzante verso i ragazzi in ghingheri che «sembrano come marshmallow dentro a una scatola che sbattono l’uno contro l’altro». Se il suo coetaneo ammette, per esperienza personale, che «una volta ferito, l’orgoglio maschile sanguina a lungo», la signora taglia corto: «Non c’è nulla di piacevole nell’amore, è una malattia», praticamente una «fitta ragnatela che imbriglia corpo e anima». Giustifica così le proprie manovre, e quelle altrui, perché «in amore bene e male non sono mai esistiti». Questo peraltro è il punto di vista dell’autore, che nella lettera finale «ai suoi lettori» cesella la sua morale, di ferocia illuministica: «All’altro, di noi, non importa assolutamente nulla».
I due giovani se la passano un po’ meglio. Lei resiste alle profferte dello stilista e, una volta incinta del giovane teatrante, non soltanto decide caparbiamente di tenere il bambino ma pone le sue condizioni per un matrimonio più o meno riparatore. Il regista invece è abbarbicato al proprio io e da tanta altezza rischia di precipitare. È attraverso di loro che Mishima replica beffardo ai propri detrattori: «La degenerazione del tardo capitalismo — scrivono in una lettera i due — distrugge invece ogni traccia d’arte, con il solo effetto di consegnare la libertà in mani fasciste (di uomini come Yukio Mishima, ad esempio)». Qui è lo spirito dei tempi che affiora, contribuendo a fare di In punta di penna un po’ più di ciò che appare: un divertissement, certo, ma anche il protocollo stenografato di ciò che era il Giappone nella seconda metà degli anni Sessanta. In Cina, vicina per davvero, montava la Rivoluzione culturale e le guardie rosse maoiste ispiravano il movimento studentesco in Giappone, come nel romanzo dimostra la scena del matrimonio dei due ragazzi.
Mishima storce il naso, e lo fa anche nei confronti della tv, che intossica la visione della realtà e distorce i rapporti personali. Con un lampo profetico, addirittura, prefigura per intero la stagione dei social con mezzo secolo d’anticipo. Lo fa servendosi del personaggio spaiato, lo studente sovrappeso: «Siccome non gli va che i momenti che lo divertono di più» alla televisione «scompaiano subito, tiene sempre accanto la macchina fotografica per immortalarli». Siamo agli screenshot ante litteram. Un indizio, forse, di come Mishima vedesse intorno a sé decadenza, nient’altro che decadenza, e non potesse che cercare l’atto eroico per trascendere il mondo.