Corriere della Sera, 29 gennaio 2023
Biografia di Rocco Scotellaro
Tricarico (Matera) A vent’anni, nel 1943, si iscrive al Partito socialista italiano. A 23 anni, nel 1946, quando nel referendum tra repubblica e monarchia il Sud dà a quest’ultima il 60 per cento dei voti, si candida con la lista «L’Aratro» a sindaco di Tricarico, in provincia di Matera, e vince: è il sindaco più giovane d’Italia. A 25 anni, nel 1948, quando la Democrazia cristiana stravince le prime elezioni politiche, lui viene rieletto sindaco e riesce a dare al paese l’ospedale che aveva promesso, con 40 posti letto. Due anni dopo, viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Matera per 46 giorni con un’accusa di concussione costruita a tavolino dai notabili democristiani del paese, dal maresciallo dei carabinieri di Tricarico, Gallo, e dal prefetto di Matera, Goffredo Volpe. Viene poi assolto dalla sezione istruttoria della Corte di Appello di Potenza, su richiesta dello stesso procuratore generale, che parla espressamente di una congiura politica.
A trent’anni, nel 1953, Rocco Scotellaro muore d’infarto. In quel momento è a Portici, Napoli, e sta per concludere Contadini del Sud, che uscirà un po’ prima di Banditi a Orgosolo di Franco Cagnetta e di Banditi a Partinico di Danilo Dolci (le tre più belle inchieste sociali italiane). Un lavoro che gli era valso l’invito in Sicilia di Leonardo Sciascia («la mia casa è a tua disposizione») e che insieme con L’uva puttanella è uno dei suoi libri più belli. Quando il feretro arriva a Tricarico, lo accoglie una folla mai vista, la gente non vuol credere che sia morto e pretende che la bara venga scoperchiata per controllare che dentro ci sia davvero Rocco.
Poeta, scrittore, sindaco, figlio di una civiltà contadina arcaica, e di Vincenzo il calzolaio e di Francesca Armento – una casalinga non analfabeta, quando lo erano sei lucani su dieci, che si prestava a fare la «scrivana del vicinato» —, Scotellaro ottenne brillantemente la maturità classica. Non concluse gli studi di Giurisprudenza perché divorato dalla passione per la politica e per la poesia. Era amatissimo dai contadini miserabili che occupavano le terre per sopravvivere, allo stesso modo in cui lo amavano i suoi amici «di lettere e di impegno politico», come Carlo Levi – confinato dal regime fascista a Grassano, 20 chilometri da Tricarico —, Manlio Rossi Doria, Rocco Mazzarone, Tommaso Pedio, Gilberto Marselli, Leonardo Sacco, Luigi Compagnone, il suo avvocato Niccolò De Ruggieri, Vittore Fiore, Adriano Olivetti, Luchino Visconti, Umberto Saba e Italo Calvino, suo coetaneo, che venne a conoscerlo a Tricarico e lo definì «una testa solida, uno che ha sempre qualche idea da darti, un fine poeta, uno scrittore, uno studioso dei problemi della sua terra». E Giovanni Russo, che su questo giornale ne scrisse più volte, sempre in maniera toccante e con grande intelligenza.
Nella poesia La terra mi tiene, scritta l’anno prima di impegnarsi in politica, Scotellaro sembra anticipare il suo destino: «Sradicarmi? la terra mi tiene/ e la tempesta se viene/ mi trova pronto». La tempesta arrivò. Il carcere segnò a vita quel ragazzo minuto, dai capelli rossi e pieno di lentiggini, che da bambino in paese chiamavano la Pulce rossa. Ma non lo sottomise. Scotellaro durante la prigionia trovò persino la forza e l’entusiasmo di leggere ai suoi compagni di cella il Cristo si è fermato a Eboli di Levi, spiegandoglielo così: «Lui (Carlo Levi, ndr) è legato a noi… È stato anche lui in galera e va dicendo che ognuno, dal presidente al cancelliere, dal miliardario al pezzente, dovrebbe andarci una volta». Come Enzo Tortora, che esattamente quarant’anni fa veniva arrestato e incarcerato con l’accusa infamante di spaccio di droga e poi venne assolto, Scotellaro non si arrese mai. Ma anche Tortora, come Scotellaro, si ammalò e dopo qualche anno morì, a 60 anni. La differenza è che Rocco Scotellaro è subito appartenuto al mito (proprio lui, che ha raccontato la società contadina traducendola in poesia, ma sottraendola al mito e alla magia).
Ne è prova il fatto che nelle case di Tricarico, ancora oggi, molte famiglie tengono affissa alla parete, accanto alle immagini dei santi, di Gesù e della Madonna, la foto incorniciata di Rocco. Solo per Maradona è accaduta una cosa del genere. E questo perché la «gente», le «masse», per Scotellaro non erano un concetto astratto, dottrinario. Erano individui, contadini, ognuno con un nome e un cognome, che egli celebrava nelle sue poesie. Come, per esempio, in Sempre nuova è l’alba, definita da Carlo Levi «una Marsigliese contadina»: «Non gridatemi più dentro/ non soffiatemi in cuore/ i vostri fiati caldi, contadini/ Beviamoci insieme una tazza colma di vino!/ Che all’ilare tempo della sera/ s’acquieti il nostro vento disperato». O come i suoi discorsi politici, che avevano sempre al centro quegli stessi uomini e donne: «È arrivato il momento di trasformare la folla in popolo», disse in un comizio del Primo maggio, e per farlo, spiegò, occorreva prima di tutto l’istruzione, poiché la Basilicata per tasso di analfabetismo era seconda solo alla Calabria. Scotellaro non poteva saperlo, ma per questa via stava anticipando di vent’anni ciò che poi sarebbe stato il fulcro del lavoro culturale, religioso e politico di don Lorenzo Milani.
Tutto questo naturalmente gli attirò l’odio di notabili, preti, funzionari e questurini sia del vecchio sia del finto-nuovo regime («Quando è finito il fascio, tutti non erano più fascisti e i caporioni del fascio sono andati nella Dc», dice Andrea Di Grazia, uno dei Contadini del Sud), i quali fecero spiare dalla polizia Scotellaro fin dal 1945 senza mai trovare nulla che potesse screditarlo. Ma gli costò anche la censura degli uomini di apparato del Partito comunista, che presero di mira Levi e i suoi amici, dei quali non sopportavano l’autonomia di pensiero, e mostrarono un’attenzione particolare per Rocco, prima e subito dopo la sua morte.
Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Mario Alicata, cioè lo stato maggiore del Pci meridionale, attaccarono duramente l’uomo e l’opera. E così, dopo il tribunale dei togati, a Scotellaro toccò di essere giudicato anche da quello dell’ortodossia ideologica, che lo appellava spregiativamente «sindaco di popolo» e nel 1954 lo condannò post mortem con la seguente ridicola motivazione: «Scotellaro procede con difficoltà ad assimilare tutti gli insegnamenti del marxismo». Due anni dopo quest’altra «sentenza», in occasione dell’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss, quegli stessi «giudici» si sarebbero schierati senza tentennamenti dalla parte dei sovietici, salvo poi «pentirsi» cinquant’anni dopo. Esattamente ciò che nei decenni successivi accadde a Scotellaro – i cui libri sono usciti tutti postumi —, sommerso da maldestri tentativi di «riabilitazione» e «appropriazione» da parte di quegli stessi post-ex-comunisti che lo avevano scomunicato. Ma non ha mai funzionato. Almeno fino a quando sono stati vivi «Levi e gli altri», la storia personale, politica e poetica di Rocco Scotellaro non si è potuta «ritoccare». Il nome del protagonista del film Rocco e i suoi fratelli, del 1960, fu l’omaggio e il modo di schierarsi di Luchino Visconti in favore di Scotellaro. Il grande dipinto Lucania ’61 di Carlo Levi, in cinque pannelli (18,5 x 3,2 metri), altro omaggio personale a Scotellaro, esposto permanentemente al Museo nazionale di Matera, fu da subito un ostacolo insormontabile ai tentativi di farlocchi giochi di prestigio storico-culturali. Mentre le parole dell’amico più stretto di Scotellaro, Rocco Mazzarone – medico, intellettuale, e anche lui di Tricarico —, sono la sintesi migliore di tutta questa storia. «Prima di Levi e Scotellaro – scrisse Mazzarone – la Lucania non aveva una coscienza di sé». Ma Levi, di Torino, era la voce venuta da fuori. Scotellaro era «la voce di dentro».