Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  gennaio 28 Sabato calendario

Intervista ad Arturo Brachetti

La passione per l’illusionismo scoppiata in seminario e i primi trucchi appresi grazie a don Silvio Mantelli. Dall’esordio al Paradis Latin negli anni Settanta agli show nei teatri di tutto il mondo. Il più grande trasformista vivente si racconta
Il ciuffo di Arturo Brachetti somiglia a una Tour Eiffel in miniatura. Dice che furono i francesi, la prima volta che si presentò con questa acconciatura, ad accostarlo al loro simbolo più noto al mondo. E a pensarci bene quello strano punteruolo è diventato la proverbiale leva con cui Brachetti solleva il mondo dello spettacolo. Mi incuriosisce. Nel bar pasticceria dove sediamo ordina tè e biscotti. Lo osservo nella sua mise elegante e casuale: un maglioncino verde pisello a giro collo, jeans e scarponcini. È un Brachetti diverso da quello che si lascia invadere da una cascata di abiti con cui, le sere che recita, delizia il suo pubblico (il suo spettacolo “Solo” è al teatro Sistina di Roma fino al 29 gennaio).
Nelle numerose definizioni che lo riguardano ricorrono parole che non hanno aggiornamenti: illusionista, trasformista oppure, guardando quel ciuffo impertinente e lo sguardo giovanile, ci si spinge fino a evocare l’eterno Peter Pan. Ma Arturo Brachetti è anche qualcosa di diverso dal magico mondo che con levità rappresenta a teatro. Sessantacinque anni levigati su di una pelle che moltiplica lo stupore in chi lo guarda.
Veloce, come i cambi di indumenti, passiamo dal lei al tu.
Come ti immagini o vivi il palcoscenico?
«Come fosse un testamento. Ogni volta è sempre l’ultimo spettacolo, i miei ultimi gesti le mie ultime parole».
Vivi pensando che non ci sarà un domani?
«I domani sono sempre meno degli ieri. E io rincorro gli ieri, senza nostalgia, ma con qualche ossessione. È il mio psicodramma: sono un quindicenneimprigionato nel corpo di un sessantenne».
E questo paradosso cosa ti provoca?
«Ti sembrerà strano: gioia ed esaltazione. Sono il bambino che quando è sulla scena sviluppa dei superpoteri».
Come un eroe della Marvel.
«Come un eroe che ha imparato a usare i trucchi».
Insisti molto sull’importanza dell’illusione.
«Più della realtà mi interessa quello che c’è oltre».
Una specie di realtà aumentata.
«Diciamo un sogno che si estende, dilata, cresce fino a diventare spettacolo».
Che definizione daresti del sogno?
«Se lo definisci lo uccidi, o al più lo limiti in una formula».
Sogni spesso?
«Tantissimo, è come una persecuzione che produce effetti benefici. Ecco, il sogno mi fa pensare a un inceneritore che smaltisce tutto il tossico della vita».
È un’immagine terribile.
«Perché? Lava la tua anima non è poco».
Che sogni fai?
«Di solito molto angoscianti. Un sogno ricorrente: ci sono io che nuoto in una piscina piena di sangue».
Molto splatter.
«Dì pure horror. Nuoto in questo liquido rosso, provando un senso di paura. Ma è come se sapessi che sto sognando e che da un momento all’altro mi sveglierò».
E quando ti svegli?
?Il ritrattoArturo Brachetti in un disegno di Riccardo Mannelli«Avverto una strana leggerezza, come se mi fossi lasciato alle spalle tutto il male del mondo. Il sogno cattivo è come la cacca, quando esce poi senti di stare bene».
Fai solo brutti sogni?
«È raro che ne faccia di belli. A volte nel sogno ho come la sensazione di volare».
Non trovi che la parola sogno sia abusata?
«Sicuramente lo è, ma che posso fare? Le parole come le immagini invecchiano. Sta a noi riportarle a nuova vita. Nel momento in cui porto il sogno nello spettacolo so che sta nascendo lo stupore. È del poeta il fin la meraviglia».
Hai letto i classici?
«Li ho orecchiati».
Leggi molto?
«Ho dei libri che porto nel cuore».
Tipo?
«Il piccolo principe di Saint-Exupéry, Profumo di Süskind, Il nome della rosa di Eco».
Vai un po’ a caso.
«Non ho mai pensato di spacciarmi per un letterato».
Come nasce Brachetti trasformista?
«Durante gli anni del seminario».
Volevi farti prete?
«Era mio padre che ci sperava. Lui stesso fu sul punto di diventarlo. Poi la guerra fece sì che interrompesse gli studi al seminario. Gli era rimasto il desiderio. Dalle nostre parti, ma credo un po’ ovunque, si dice che se hai un figlio prete ti sei guadagnato un posto in paradiso».
In paradiso con le preghiere degli altri.
«Questa è buona! Ma sì, però penso che fosse in buona fede».
La fede è tutto in un cattolico.
«La mia educazione è stata eccessivamente cattolica. Forse per questo alla fine l’ho trascurata».
Hai rimesso in discussione il rapporto con Dio?
«Ormai da tempo. Mi considero blandamente ateo».
Blandamente?
«Penso che esista un qualche disegno soprannaturale.
Mi immagino la natura come un grande architetto. O la matematica che tutto armonizza. Da qualche parte un’infinita intelligenza ci deve pur essere».
E se non ci fosse, se fossimo davvero soli?
«Beh, ci sarebbero sempre il sogno, la magia, l’illusione. La scienza. Non è male pensare a Dio come a un’entità dotata di superpoteri, un illusionista capace di affascinarci con i suoi trucchi».
E tu ancora bambino scopristi il trasformismo.
«Fu grazie a don Silvio Mantelli, un salesiano che mi insegnò i trucchi rudimentali della prestigiazione. Ero incantato dalla grazia con cui faceva sparire e riapparire le cose. Mi disse: Arturo non è importante avere una vocazione religiosa, e temo che tu non l’abbia, l’importante è avere una vocazione».
Forse quel prete in un’altra epoca lo avrebbero messo al rogo come eretico.
«Nel Seicento forse. Ma la Chiesa degli anni Settanta viveva pienamente gli effetti del Concilio. E poi una certa controcultura era penetrata sconvolgendo le ortodossie. Si parlava già del matrimonio dei preti, del rock suonato in chiesa, mancava solo che qualcuno prima di servire messa si imbottisse di acidi».
Perché decidesti di andare in seminario?
«Perché ero un bambino buono e remissivo. E per uno come me, ti assicuro, non fu facile la convivenza con gli altri coetanei».
Perché?
«Ero visto come un’entità stravagante. C’è una ferocia nell’adolescente che di solito non consideriamo. Ma che nel momento in cui si manifesta ha bisogno della vittima predestinata.
Ecco, io ero quella vittima da insultare e bullizzare. E allora capisci che il seminario fu anche un modo per proteggermi».
Sei mai stato molestato?
«No, mai. Nonostante non mi sia successo niente, e non avrei permesso che mi accadesse qualcosa, ho spesso pensato che uno dei risvolti interessanti dell’educazione cattolica è quel certo gusto del proibito che aleggia e che si forma davanti a ogni divieto categorico».
Tipo non desiderare la donna d’altri.
«Appunto. Ma la verità è che gli effetti di tali divieti sono sorprendenti. Non c’è di meglio, per scatenare certe fantasie, dei tabù sessuali. Pensa alle tette di Sant’Agata, come si chiamano?, le “minne” che poi è diventato un dolce; oppure pensa al martirio di San Sebastiano, le cui tele appassionano tanto il mondo gay quanto i conventi di monache. O magari a certe sante mistiche in piena estasi. Tutto sfocia in una sessualità a un tempo repressa e manifesta».
Siamo finiti in pieno erotismo cattolico.
«Il cattolicesimo è una religione carnale e anche un po’ pagana. Il fitto esercito di santi ha rimpiazzato
Inizi con la magia e finisci col trasformismo. Cosa ti evoca la parola?
«Ne parlo e lo pratico come metamorfosi. Niente a che vedere con ciò che accade in politica».
Non ti piace la politica?
«È un male necessario. Non mi piace la banalità di certi politici».
Quando dicesti a tuo padre: voglio fare l’attore, come reagì?
«In realtà non glielo dissi. Era un incallito bigotto e non avrebbe compreso. Gli dissi però: papà voglio iscrivermial liceo artistico e lui mi disse se non ero impazzito, in mezzo a tutti quei drogati e omossessuali. Presi un diploma e a 18 anni abbandonai la famiglia e mi trasferii a Parigi. Lì avvenne il battesimo come artista».
Ricordi dove e quando?
«Fine anni Settanta, il teatro era Paradis Latin, e Jean-Marie Rivière il direttore, mi prese in simpatia. Il successo fu immediato. Parigi restò stupita e ammirata dal modo rapido e dalla grazia con cui mi trasformavo. Era dai tempi di Fregoli che non vedevano uno così veloce».
Il successo ha prodotto il tuo ciuffo?
«No, in realtà è nato quando recitavo Sogno di una notte di mezza estate, il regista volle che mi connotassi per un dettaglio bizzarro. E saltò fuori il ciuffo. La critica francese lo battezzò la piccola Tour Eiffel. Quindi il successo non produsse questa strana “virgola” ma ansia e smarrimento».
«Non capivo cosa mi stesse accadendo. Pensai al senso di colpa, al fatto che la religione cattolica ti inculca l’idea che ogni cosa che conquisti la devi pagare».
E invece?
«La spiegazione era nella mia testa. Lo psicoanalista, al quale mi rivolsi, disse, che era abbastanza normale. È come se in tournée andassi a 200 all’ora e poi finiti gli spettacoli tornassi ad essere la persona normale che va a 50 all’ora. Mi sembrava di stare fermo».
Soffri o hai sofferto di depressione?
«Ne ho sofferto, oggi meno. Ma so che è sempre dietro l’angolo».
Che cosa ti dà dal punto di vista emotivo il palcoscenico?
«È una specie di droga. È come se tu vivessi l’esaltazione del potere di un grande dittatore o di un grande comunicatore».
Come fai in scena a cambiarti così in fretta?
«Mi piace pensare al potere della metamorfosi. In realtà ci vuole un certo ingegno perché i vestiti sono meccanismi complicati, difficili da realizzare; poi è necessaria una grande organizzazione dietro le quinte; molta agilità e infine una punta di schizofrenia perché in un lasso di tempo minimo stai vivendo numerose vite».
Ti senti più attore o showman?
«Sono un attore con il gusto del grande spettacolo».
Hai poco recitato in ruoli teatrali. Perché?
«Forse perché non ho tempo. Ho adorato Paolo Poli, il trasformismo che ha messo nella parola io l’ho messo nel corpo. E ho avuto una grande ammirazione per Ugo Tognazzi».
Aveva una sensibilità molto diversa dalla tua.
«È vero, ma sentivo in lui qualcosa di metamorfico.
Abbiamo recitato assieme. Alla fine nella commedia si suicidava. Mentre moriva Ugo mi sussurrava all’orecchio: Arturo stasera dove andiamo a mangiare? Non ho mai visto nessuno con la stessa voglia di prendere tutto dalla vita».
Mi incuriosisce che la moda non ti abbia maicercato.
«Dici per una sfilata?».
Sì, realizzata però alla tua maniera.
«Come idea mi divertirebbe. Ma non c’ho mai pensato.
Del resto, mi fai venire in mente, la Tv italiana non ha mai proposto uno speciale sulla mia vita. Forse pensano che a Las Vegas ci sia un trasformista più veloce di me nello spogliarsi e rivestirsi».
Hai avuto complessivamente più di cinque milioni di spettatori.
«È un numero che parla da solo, ma vedi torniamo al problema del successo».
Lo vivi proprio male.
«No, no. È che tutta questa esaltazione spesso mi provoca insonnia e smarrimento. Mi ricorda il racconto cinese della montagna. La prima volta lo sentii dal mio psicoanalista. Giunto in cima mi accorgevo che non c’era nessuno, soltanto io, con la bandierina da piantare.
Ma in vetta c’era anche tanta nebbia. E quando scendevo un po’ e la nebbia si diradava, vedevo all’orizzonte un’altra montagna più alta della mia e pensavo: ecco scalerò anche quella. Il problema, mi disse lo psicoanalista, è quando finiscono le montagne. Scalare il successo è la stessa cosa e allora mi dico: Arturo ricordati che finché c’è viaggio c’è speranza».