Robinson, 28 gennaio 2023
Intervista a Bob Ezrin
È stato il produttore di Pink Floyd, Alice Cooper, Lou Reed, Rod Stewart,
Elton John, U2, Deep Purple. Ora a 73 anni racconta un secolo di rock, il “tradimento” della musica digitale e l’impegno per il Pianeta
Canadese, 73 anni, Bob Ezrin è da mezzo secolo uno dei più importanti artefici della pop music mondiale.
Produttore artistico, tra gli altri, dei Pink Floyd (The Wallil suo lavoro più celebre, e celebrato) e di Alice Cooper, Lou Reed, Rod Stewart, Lang Lang, Elton John, U2, Deep Purple, in Italia è di casa da quando ha lavorato con l’Orchestra di Piazza Vittorio e con Andrea Bocelli. Nel corso degli anni è diventato uno dei più convinti testimonial della battaglia ambientalista. Questa è la sintesi di una lunga chiacchierata con lui.
L’intervista integrale sarà presto disponibile sul sito diRepubblica.
Lei ha attraversato tutta la musica pop. Ha lavorato con il vinile, i cd, il digitale. Un salto tecnologico enorme e molto veloce, come quello che ha investito la società umana nel suo complesso. Quanto e come la tecnologia ha cambiato la musica?
«La tecnologia digitale non era stata pensata per ridurre la natura viscerale delle relazioni tra le persone e l’arte. Di fatto, è stata promossa esattamente come il contrario: qualcosa di più intenso, meno rumoroso, più reale dell’analogico e, di conseguenza, come un’esperienza migliore. Ma la realtà è che il rapporto classico tra performance ed esperienza era diretto, totalmente naturale, caldamente umano. Con la registrazione digitale le performanceoriginali, fisiche e organiche, sono state convertite a una serie di 1 e di 0, un facsimile ricostruito e trasformato. Durante questo percorso succede qualcosa: l’arte lascia il mondo fisico e organico, perde quello che la lega a noi attraverso la nostra reciproca “naturalezza”. La perdita di innata umanità nella musica e nell’arte visiva è una involontaria conseguenza della creazione di una nuova tecnologia. Ne è una riprova il risorgere dell’interesse per il vinile, anche tra i giovani. Ipotizzo che la connessione tra loro e quei dischi sia più organica e reale di quando ascoltano cose su TikTok, Spotify o YouTube».
Il lavoro di un produttore sfugge al grande pubblico. Qualcuno pensa che sia solo una specie di arredatore di luoghi musicali già perfettamente progettati dagli artisti. Lei che produttore pensa di essere?
«Ci sono produttori pop che fanno tutto, da scrivere la canzone insieme ai loro artisti fino a suonare molte parti musicali, se non addirittura tutte. In un certo senso io sono sempre stato quel produttore, colui che si ritiene responsabile dell’essenza della registrazione: dei temi e dell’ethos in generale, del materiale di fondo, di tutte le esecuzioni e del sound finale della registrazione».
Si occupa molto di ambiente e battaglie ambientali. Spesso artisti e intellettuali, dai tempi di Concert forBangladesh (1971) e Live Aid (1985), hanno sposato le migliori cause. Ma serve davvero a incidere nella realtà delle cose, o è solo un atteggiamento nobile per mettersi in pace la coscienza?
«Questa è un’ottima domanda, quasi esistenziale, direi. Ci tengo alle cause che sposo? Sì, profondamente. Mi sveglio in piena notte e mi metto seduto sul bordo del letto, preoccupato per lo stato della mia società, per il futuro dell’umanità e in particolare per le conseguenze che avrà sui miei figli e sui miei nipoti. Ho 73 anni ormai. Non ho tutta una vita davanti. Ma loro sì. La mia impressione è che il modo più efficace di spostare l’ago della bilancia sia creare campagne di consapevolezza costante, che riescano a spaventare la popolazione al punto da pretendere un’azione da parte dei loro governi. Credo che gli artisti che partecipano ai grandi eventi come Live Aid siano sinceri.
Ma la loro disponibilità al sacrificio si estende anche al resto del percorso di sostegno, andando magari oltre una breve apparizione gratis da qualche parte? Spesso sì, molto. A volte, molto meno».
È ottimista o pessimista? Per noi occidentali, che in grande maggioranza abbiamo la pancia piena, parlare di “sobrietà” e di “cultura del limite” è più semplice.
Ma per Africa e Asia, che iniziano a conoscere il benessere solo adesso, ridurre le emissioni, in pieno boom economico, è meno facile….
«Il punto è che è il mondo sviluppatoa essere responsabile della grande maggioranza di pratiche dannose.
Credo fermamente che se il cosiddetto “primo mondo” apportasse immediati cambiamenti ad alcune pratiche fondamentali, soprattutto l’uso immorale dei combustibili fossili, la folle proliferazione di rifiuti, l’immissione di micro-materiali nel nostro ambiente, e – più importante di tutto la distruzione delle foreste, degli oceani e delle praterie (i polmoni del pianeta), allora forse avremmo la possibilità di attenuare il cambiamento climatico per un tempo necessario a trovare soluzioni al diluvio di nuove crisi imminenti.
Credo nell’umanità essenziale, e credo nella resilienza della nostra specie e del nostro pianeta. Ma credo anche nella scienza, che ci ha mostrato chiaramente quali saranno le conseguenze del nostro non agire. Ho un cartello in cucina che dice: “Se pensi di essere troppo piccolo per cambiare le cose, non hai mai dormito con una zanzara in camera”. Per anni mi sono detto: “Sono una zanzara”. Ma non sono più tanto convinto di riuscire a ottenere risultati di qualche rilievo in tempo utile».
Recentemente ho preso in giro Elon Musk, che promette molti soldi a chi inventa una tecnologia per l’assorbimento dell’anidride carbonica. Quella tecnologia c’è già, si chiama “albero”.
«Non potrebbe essere più esatto. IlCanada ha tante foreste e tante praterie, ma sta perdendo entrambe a un ritmo allarmante. Quello che il mondo richiede al Canada, alla Russia, al Brasile e a tutti i paesi dotati di foreste pluviali, è di aumentare di molto le dimensioni dei nostri “polmoni” per generare più ossigeno, eliminando al tempo stesso molto più carbone. Ma lo sviluppo umano e l’aumento della popolazione hanno richiesto che sempre più terra venisse spianata, più foreste venissero tagliate, più cemento venisse prodotto e versato, più combustibili fossili venissero bruciati. Perciò, ripeto: a meno che la popolazione non si sollevi pretendendo nuove soluzioni, le circostanze ci spingeranno a continuare come abbiamo sempre fatto, finché niente avrà più importanza».
Del Canada si parla poco, in Europa. È come se tutti i riflettori fossero sempre puntati sul vostro vicino meridionale, gli Stati Uniti.
Cosa significa condividere lo stesso continente con un vicino così ingombrante?
«Ho una doppia cittadinanza, quindi per me sono entrambi “miei Paesi”.
C’è tanto degli Usa a cui noi canadesi abbiamo aspirato – energia, benessere, autosufficienza – ma c’è stato anche molto altro che per noi è stato impossibile da comprendere o accettare, a cominciare dalla schiavitù per arrivare alla Guerra civile, all’isolazionismo, alla propensione alla violenza e alla perdurante discriminazione e diseguaglianza. Il Canada, forse perché è un paese enorme e geograficamente impegnativo, esige dalla sua popolazione un tipo speciale di collaborazione e di mutualità. C’è sempre stato, quindi, un senso di responsabilità istituzionale maggiore di quello che esiste negli Usa, dove l’individuo viene celebrato al di sopra di tutte le istituzioni. Ultimamente, alla luce del malsano clima politico negli Usa, lagente pensa al Canada come a un posto bellissimo e umano. La realtà è che siamo stati pessimi dal punto di vista dell’ambiente, e siamo colpevoli quando gli Usa di genocidio nei confronti delle nostre popolazioni originarie. Ma il Canada gode nel mondo di un brand migliore rispetto agli Usa».
Immagino che The Wall sia il lavoro del quale si sente più orgoglioso. Ma se dovesse fare un bilancio, con quali altri artisti pensa di avere trovato la migliore intesa, e quali sono, tra i dischi che ha prodotto, quelli che si porta nel cuore?
«Adoro The Wall per il suo livello di eccellenza in termini di esecuzione e registrazione, per la sua intelligenza, per l’importanza che ha avuto per tante persone e per l’eccezionale esperienza dell’averlo realizzato con una band di fantastici esseri umani, i Pink Floyd. Ma nei miei 53 anni di carriera ho avuto il privilegio e la fortuna di poter lavorare con artisti e performer di grande importanza.
Alcuni hanno avuto grande successo, molti no. Ma tutti, per me, sono stati voli di passione e grandi esperienze formative. Ho lavorato a progetti di ogni genere musicale, a parte la Polka (ma non è mai troppo tardi, no?). La maggior parte degli album a cui ho lavorato è stata intrisa di risate e cameratismo. Forse è questa la cosa di cui sono più fiero: che dopo 53 anni, Alice Cooper è ancora uno dei miei più cari amici, anzi un fratello, e quando lavoriamo insieme, oggi, ridiamo e ci godiamo a fondo lareciproca compagnia come un tempo. E sono fiero di essere diventato intimo con tutta la famiglia Bocelli nel periodo in cui ho lavorato con Andrea. Sono fiero che io e Lou Reed siamo rimasti amici intimi fino al giorno della sua morte, e che adesso con Laurie Anderson portiamo avanti quella amicizia».
Capisco che è una domanda poco diplomatica, ma a noi Bocelli sembra un prodotto molto adatto agli americani, che hanno una visione molto “easy” della lirica…
«Bocelli non è un cantante d’opera, anche se ogni tanto canta l’opera. È un tenore italiano e, dal mio punto di vista, può cantare qualsiasi stile musicale con quella voce così profonda, potente e affascinante. Il nostro album è stato al primo posto nella classifica Billboard degli album, la prima volta di Andrea da numero uno nel pop. Sono molto orgoglioso di quell’album e in particolare di aver coinvolto anche suo figlio Matteo nel progetto. Ancora oggi, quando sento loro due insieme, mi vengono le lacrime agli occhi. Adoro Bocelli per la sua voce e il suo spirito, ma soprattutto per la sua totale “italianità”. La mia storia d’amore con l’Italia è cominciata durante la mia prima visita negli anni ’60. Ma si è realmente cementata quando ho cominciato a lavorare con l’Orchestra di Piazza Vittorio nel 2007. Nel periodo in cui ho lavorato con loro sono diventato italiano nel cuore».