Robinson, 28 gennaio 2023
Intervista a JR
Lo street artist francese svela in anteprima il progetto dedicato ai bambini ritratti nei paesi del mondo in crisi Dal 9 febbraio alle Gallerie d’Italia di Torino
C’è eccitazione, fuori e dentro la sede di Gallerie d’Italia, a Torino.
Manca poco all’inizio di febbraio e l’arrivo in città di JR è di per sé un evento.
Non è la prima volta che l’artista francese, classe ’83, appare da queste parti. L’ha già fatto almeno altre quattro volte e sempre per lo stesso motivo, ovvero perlustrare ogni centimetro dei quattromila metri quadrati del museo. L’occasione è importante: DEPLACÉ.E.S, che aprirà i battenti il 9 febbraio, è la sua prima mostra italiana e chi ha sbirciato il rendering giura che sarà un evento dal forte, fortissimo impatto emotivo. Il tempo concesso per l’intervista, ci dice la sua assistente, è di «quindici, venti minuti al massimo». Ma, complici un caffè e gelatine di frutta, JR parlerà per quasi un’ora. E chiederà, lui a noi, se abbiamo bisogno di sapere altro.
Partiamo da questa mostra che, negli intenti, vuole farci ragionare sulle migrazioni forzate attraverso i volti dei bambini.
«È una mostra davvero speciale, ho viaggiato molto per farla. Ucraina, Ruanda, poi Lesbo, la Mauritania, Colombia. Tutte le singole volte, però, il progetto è stato realizzato per la singola comunità. Ingrandendo il volto di questi bambini, e messi unoaccanto all’altro, sembra che stiano correndo insieme, che stiano giocando, quasi. A Torino li vedrete per la prima e unica volta insieme, in piazza San Carlo. Arriveranno da luoghi diversi e si incontreranno. Coi social ci sentiamo sempre connessi, ma in realtà siamo scollegati e il cuore del mio lavoro è connettere le persone, anche fisicamente.
Chiunque abbia fatto parte di un mio progetto non ti dirà mai: “Oh, che foto incredibile, guardate la luce!”. Ti dirà, con ogni probabilità, che ha vissuto una bella giornata».
Tratta spesso il tema dell’infanzia, che bambino è stato?
«Curioso e ingenuo. Non ho mai studiato arte, neanche immaginavo ci fossero musei o gallerie. Non sapevo che si potesse diventare artisti e che quello dell’artista fosse un mestiere. Il non avere preconcetti mi ha dato la libertà di esplorare, provare, fallire. Quando non dai peso a ciò che devi essere hai la libertà di essere libero. Una libertà che è molto difficile da proteggere quando diventi adulto. È stata una fortuna, non sapere nulla».
Ha sempre sognato di fare l’artista?
«Per me esistevano solo i graffiti. Ho iniziato a farli quando avevo 15 anni ed era ancora considerato vandalismo. Quando ripenso alla mia infanzia, l’unica cosa che mi viene in mente è che sognavo di esporre per strada, ovunque potessi. All’inizio lo facevo a Parigi. Salivo in metropolitana e andavo in città, ma ho sempre saputo che c’era qualcosadi diverso, oltre il mio mondo. Mentre scattavo le proteste nelle banlieue, ricevetti delle offerte di lavoro da parte di alcune agenzie fotografiche.
Rifiutai, perché non era quello che volevo fare. Senza rendermene conto, ho preso una decisione importante, quel giorno, una decisione che mi ha portato a essere un artista».
Cosa direbbe, oggi, a quel ragazzino?
«Di continuare a viaggiare. I soldi non sono mai stati il motivo per cui ho fatto le cose. Spesso, sceglievo le mete in base ai voli più economici e finivo per girare l’Europa. Questo mi ha aperto tutti gli orizzonti e ogni posto mi mostrava qualcosa che nonsapevo. Mi lamentavo della mia esistenza in periferia, ma poi ho capito che la mia vita, rispetto ad altri posti, era un lusso».
Qual è la parte più difficile della realizzazione di un’opera?
«I confini che abbiamo dentro. È un po’ come quando vuoi far qualcosa e pensi sia impossibile. Se cominci a farla, capirai come farla e le cose si risolvono. È il mio trucchetto. Mi piace quando non so nulla e poi, improvvisamente, devo imparare. Il fatto che io le faccia, le cose, seppure in maniera ingenua, non mi stressa.
Si impara mentre si fa, mi piace questo tipo di scuola. Non bisogna avere paura del fallimento».
Le sue opere sonomastodontiche.
«Il dovere di un artista è quello di andare nei posti più remoti, dove la gente non ha voce, e creare, nel mio caso, un’immagine gigante, potente, così da mostrare a tutti ciò che accade in quella parte di mondo.
Quel ponte tra noi e quel luogo remoto è possibile solo grazie all’arte».
Pensa sia politica, l’arte?
«Ingenuamente, pensavo la politica fosse una questione di destra e sinistra, poi qualcuno mi ha fatto notare che tutto ciò che faccio è politico, anche solo scegliere la strada e non un museo. Il ruolo che sento mio è quello dell’artista: sollevare domande e non darerisposte. Chi sono, io, per dire ciò che dovremmo fare?».
Come le piacerebbe essere ricordato tra cent’anni?
«Se avessi fatto un’accademia, avrei sognato di avere successo, ma siccome non l’ho fatta, credo che il mio sogno fosse quello di vivere la vita di un artista, il che significa non ragionare sul fine di un’opera. Ma viverla, per l’appunto».
È tutto qui l’essere artista?
«È anche vivere nella zona grigia delle cose, accettare di mettersi in gioco. Così facendo, smuovi davvero i confini. Per questo motivo non ho mai accettato sponsor. Non ho niente contro il capitalismo, è solo una questione di messaggio tra me e il pubblico. Deve rimanere puro».
E se Elon Musk le chiedesse di fare un’installazione nello spazio?
«Mi sembra ci sia così tanto da fare qui, al momento, prima di iniziare a guardare altrove».
Quando è stata l’ultima volta che ha pianto?
«Di recente, al confine tra l’Ucraina e la Polonia. C’era, davanti a noi, un padre in fila con sua figlia e giunti al confine la polizia l’ha rimandato indietro. Ha provato a spiegare che quella bambina non aveva una madre né un posto dove stare, ma non c’è stato nulla da fare. Visto che era un uomo, non poteva lasciare il Paese. In quel momento c’è tanta adrenalina, non capisci nulla. Ma quando passi il confine, ecco, in quel momento preciso, ti arriva addosso tutto, tutto quanto».