Robinson, 28 gennaio 2023
Lettere a Stevenson
Alberto Manguel
Le nostre nozioni artificiali del tempo, che vengono smentite dall’astrofisica, dove tutti gli eventi sono in qualche modo simultanei, ci impediscono di vedere il capitolo finale del cammin di nostra vita.Quando leggiamo un romanzo, familiarizziamo con ciò che viene raccontato una pagina alla volta, salvo quando decidiamo di barare e andare a guardare la fine. Ma nella vita, e probabilmente è una fortuna, barare in questo modo non è possibile: sappiamo che la fine ci aspetta, ma non sappiamo quando.
La vita di Robert Louis Stevenson è una successione di capitoli della storia che finirà drammaticamente alle Samoa il 3 dicembre del 1894, quando, dopo aver preparato un’insalata per la cena di famiglia, l’autore de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, con un gesto che sarebbe sembrato troppo artefatto in uno dei suoi romanzi, improvvisamente si afferrò la testa e chiese alla moglie: «La mia faccia è cambiata?». Morì nel giro di poche ore per gli effetti di un ictus fulminante, pianto dai lettori di tutto il mondo a cui aveva concesso, con i suoi racconti di terrore e le sue storie di avventura, di provare il piacere vicario di giocare con il diavolo senza essere costretti a barattare la propria anima. Quando morì, i samoani, che lo adoravano, vollero a tutti i costi vegliare il suo corpo durante la notte e il mattino seguente lo portarono in spalla fino alla cima del vicino monte Vaea, per seppellirlo in una tomba affacciata sul mare.
Le lettere raccolte in questo Diario degli ultimi anni nei mari del sud
sono indirizzate da Stevenson al suo amico, curatore e critico d’arte Sidney Colvin dal novembre del 1890, quasi un anno dopo l’arrivo alle Samoa, fino all’ottobre del 1894, due mesi prima della sua morte. «L’altro giorno», scriveva Stevenson nel giugno del 1892, «mi è venuto improvvisamente in mente che queste cronache che ti scrivo potrebbero tornare utili quando sarò morto e si potrebbe ricavarne un libro senza troppa fatica». Colvin realizzò il velato desiderio dello scrittore. Il risultato ora è uscito in italiano per la magnifica traduzione di Michele Buzzi, con un’utile introduzione di Andrea Casoli accompagnata da una serie di foto e schizzi dello stesso Stevenson. La corrispondenza è diventata un diario.
Le Samoa (Stevenson forse non lo sapeva, ma probabilmente lo sospettava) sarebbero state l’ultimo capitolo di una vita spesa a fuggire costantemente dalla «Strega della Notte», come chiamava la malattia polmonare che lo perseguitava fin dall’infanzia. Nelle Samoa, Stevenson costruì da zero una casa che chiamò Vailima, “cinque fiumi”, e ci visse con la moglie, il figliastro Lloyd Osbourne (che collaborò ad alcune delle più belle storie di Stevenson), la figliastra con il suo bambino piccolo e la madre di sessant’anni e passa. Per Stevenson fu una fatica vivificante e sfiancante al tempo stesso, che i samoani impararono ad ammirare e rispettare. «Non c’è niente di più interessante che strappare erbacce, disboscare, tracciare sentieri», scrisse a Colvin nella sua primissima lettera. «Tornare a casa coperto di fango, zuppo di sudore e di pioggia dopo ore passate nella macchia, cambiarsi, darsi una ripulita e sedersi sulla veranda ti procura il piacere di una coscienza tranquilla».
Le lettere parlano solo occasionalmente di letteratura. Ci sono accenni ad amici scrittori – Henry James, Kipling – e richieste a Colvin di inviargli libri, thriller da quattro soldi come quelli del francese Xavier de Montépin. Ci sono abbondanti resoconti dei suoi progressi nella stesura de Il relitto, La spiaggia di Falesà, Weir di Hermiston (il suo ultimo capolavoro incompiuto) e vari altri. Ma la parte più sostanziosa dell’epistolario sono le fatiche manuali di Stevenson, il diario di una sorta di Robinson Crusoe che costruisce una casa in mezzo alla natura, oltre ai rapporti del grande romanziere con le vicende politiche locali e i missionari che andavano a caccia di anime.
La Gran Bretagna, la Germania e gli Stati Uniti avevano messo gli occhi sulle isole e le navi da guerra di queste tre potenze imperialistiche erano diventate una presenza costante nelle baie samoane. Stevenson era consapevole che una società indigena come quella samoana era drammaticamente impreparata all’assalto di stranieri che sfruttavano le rivalità e le divisioni endemiche e portavano transazioni commerciali inique, oltre a malattie letali. Con il crescere delle pressioni europee sulla società samoana, le tensioni ben presto cominciarono a dividere la popolazione, scatenando guerre intertribali. Le sue proteste e le lettere accusatorie che inviava alTimes a Londra lo fecero vedere dagli altri europei come un agitatore e un traditore della sua stessa gente.
«Mio caro amico», scrive a Colvin il 17 aprile 1893, «la politica è cosa abietta e intricata. Un tempo pensavo male degli idraulici, ma come rifulgono, ora, al confronto dei politici!». E nell’ultima lettera a Colvin, datata 6 ottobre 1894, scrisse quanto segue, parole che dovrebbero essere impresse a fuoco sulle porte del Parlamento europeo: «È una dimostrazione di intelligenza, del fatto che non siamo barbari, l’essere capaci di penetrare qualcosa che è al di fuori di noi, qualcosa che non tocca soltanto chi ci sta accanto sull’omnibus». Firmò la lettera “Tusitala”, il nome che gli avevano dato i samoani, che significa “raccontatore di storie”.
Stevenson sapeva che uno scrittore è «essenzialmente infedele» e quindi non ha alcun obbligo di seguire le convenzioni dell’ordine cronologico o della mappatura geografica. Sa che il lettore lo seguirà oltre le convenzioni del tempo e dello spazio, poiché scrive al suo amico più giovane parole che Casoli, saggiamente, cita a conclusione della sua prefazione: «Se vuoi raggiungermi: affitta una barca a San Francisco, poi prendi la seconda a sinistra; io sono lì».