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 2023  gennaio 28 Sabato calendario

Gilbert & George si raccontano

Come un vaticano laico, Spitalfields è l’enclave religiosa di Gilbert & George. Perché in questo caotico, “multikulti” e inafferrabile quartiere dell’est di Londra, la coppia più celebre dell’arte mondiale ha trascorso oltre mezzo secolo di vita ottuagenaria. Gilbert Prousch, 79 anni, nato a San Martino in Badia da famiglia ladina, e George Passmore, di Plymouth, 81 appena compiuti, qui sono due papi in tweed, eleganti e trasgressivi. Venerati quando vanno a mangiare al caffé turco preferito, omaggiati da abitanti locali ed hipster, ammirati quando offrono tazze di tè ai senzatetto fuori dalla loro “cattedrale”. Ossia i tre palazzi “brickhouse” del XVIII secolo comprati a Fournier Street: «In uno abitiamo, l’altro è uno studio e il terzo è studio e casa per il nostro assistente», spiega Gilbert. Eppure, un tempo G& G qui si potevano permettere solo uno scantinato in affitto a 12 sterline a settimana, negli anni in cui l’Inghilterra aveva appena decriminalizzato l’omosessualità e comparivano i primi pub gay su Brick Lane. Oggi, ognuna di queste case a tre piani, vale circa 7 milioni di euro.
«Perché questa è East London, il centro del mondo, anzi della storia del mondo. Perciò non ce ne andremo mai da qui», ci accoglie gaudente George, vestito di magenta, tra gli intercalari «extraordinary, isn’t it?» e il delizioso, old- fashioned accento “Received Pronunciation”, oramai raro persino sulla sempre meno canonica Bbc. «Viviamo in una strada francese», racconta Passmore, «costruita su un cimitero romano. Oscar Wilde comprava la droga qui, più avanti c’è Brick Lane con all’epoca i mods, gli skinheads e le Dr Martens, oltre al centro spirituale ebraico dal 1901 e la moschea. E poi per secoli qui si sono rifugiati ebrei, ugonotti, irlandesi. Qui non c’è vecchio e nuovo: Spitalfields è tutto, è il centro dell’universo».
Ma entriamo in casa di G& G, cocktail da sballo dell’arte “per tutti”. Ci accolgono per una intera mattinata nel loro rifugio antico, mentre fuori precipita la pioggia grigia di Londra. Pezzi di giornale affissi sui muri, una sterminata collezione di vasi antichi, rivestimenti lignei come le vecchie case francesi, arredamenti gotici, del XIX secolo, di Pugin, Godwin, Dresser e Bullock. Poi ci infiliamo nel loro abbagliante studio, ricavato sul retro. Il prossimo primo aprile, in una vecchia birreria di Brick Lane, questo leggendario duo inaugurerà il “Gilbert & George Centre”, una galleria personale da circa 10 milioni di sterline. È un nuovo trend “fai- da- te” dell’arte inglese, come già visto con Tracey Emin, Damien Hirst e Anish Kapoor. «Siamo immorali ma vogliamo essere anche immortali!», proclama il verde vestito Gilbert, nel suo accento tirolese altrettanto duro a morire. Aggiunge George, con i suoi grossi occhi castani dietro gli occhiali spessi alla James Callaghan: «Nel nostro centro potremo vivere per sempre. Mentre oramai nei musei normali è sempre più difficile trovare spazio, sono diventati quasi tutti woke», politicamente correttissimi. «C’è solo arte nera, di donne, o altre a tema. Pure Francis Bacon rischia l’oblio oggi».
Avvertenza. Gilbert & George sono così “alternativi” da essere conservatori di ferro, inossidabili monarchici e brexiter tuttora convinti: «Siamo per la libertà, noi!», sciabola George, «perciò siamo spesso stati outsider nel mondo dell’arte». Che però, nonostante tutto, G& G hanno rivoluzionato. Sin da quando si incontrarono il 25 settembre 1967 alla scuola d’arte londinese di Saint Martin, dove l’appena arrivato Gilbert aveva un inglese stentato e l’unico a capirlo era George. «Amore a prima vista», ricordano i due, tanto che Passmore pare abbia mollato una moglie, l’artista Patricia Stevens, apparentemente sposata solo tre mesi prima e con due figli splendenti, Sunny e Ray. Ma George non vuole parlarne. Perché da quel momento la sua vita e la sua carriera è soltanto stato Gilbert, sposato nel 2008.
Da 55 anni, Gilbert & George, adorati da David Bowie, sono gemelli diversi. Non si sono mai separati, sempre nella loro uniforme giacca e cravatta ( «perché è l’abito più popolare e adatto a qualsiasi occasione» ). Mai un cellulare in tasca, nessuno liha mai visti soli: vivono, lavorano e cantano sempre insieme. E sono diventati una specie rarissima dell’arte mondiale performativa e pop, antiestetica, antielitaria, antitabù e anticoncettuale. Un’arte sacrificale, sociale, sessuale, paradossale, in un certo senso religiosa: “in fiamme” come aveva profetizzato l’esteta vittoriano Walter Pater. I primi successi proprio alla fine degli anni Sessanta con le Singing Sculptures, quando G& G si ricoprivano di colori metallici come statue cantandoUnderneath the Arches a Trafalgar Square e ai concerti dei Rolling Stones. Poi il Turner Prize nel 1986, le indimenticabili mostre radicali, nude, oltraggiose, di parolacce e liquami volgari come “George the Cunt and Gilbert the Shit”, “No way. Kiss me. Fuck them all”, le “Naked Shit Pictures”, le patriottiche “Jack Freak Pictures” alla Tate Modern, la White Cube e la Serpentine Gallery, i diari online durante il Covid.
«Mica come Turner, i cui disegni pornografici segreti vennero bruciati da Ruskin!», scherza Gilbert. Ora, sono arrivate le nuove attesissime 17 opere di G& G, le scarlatte e sepolcrali “Corpsing Picture”, in anteprima alla Patricia Low Contemporary di Gstaad, in Svizzera, e poi accolte nel loro nuovo centro. Tra ossa, scarpe dorate e cappi di pathos. «Perché a volte siamo tutti ossa», dice George
«Molte persone associano un “corpo” a un cadavere. Ma in inglese corpse, in ambito teatrale, si usa anche quando un attore inizia a ridere sul palco e non riesce più a fermarsi. È una reazione comune verso le nostre opere».
Gilbert: «Anche io ho ridacchiato davanti a esse per molti anni».
Quanto è importante lo humour nelle vostre opere?
George: «Niente humour. Sono tutte serissime. Ma molti pensano che il paradiso venga dopo. Invece, con queste immagini paradossali, vogliamo inaugurare la nostra fondazione con un paradiso. Un posto anche dove poter piangere».
Ma perché vi siete subito innamorati di Brick Lane e di Spitalfields?
Gilbert: «Dopo l’università, era la zona più economica di Londra. Affittammo uno scantinato-studio, senza bagno, a 12 sterline a settimana da un ebreo russo. Non poteva permetterci di chiamare muratori, lo sistemammo tutto noi da soli. Alcuni palazzi erano vuoti, malfamati, ma riuscimmo a comprare il primo nel 1972».
George: «Quando decidemmo di comprarlo, i vicini di casa e la gente del quartiere si insospettirono: perché le abitazioni facevano schifo e si chiedevano dove prendessimo soldi».
Quanto vi ispira East London per la vostra arte?
Gilbert: «Basta farsi un giro fuori dalla vicina stazione di Liverpool Street: c’è tutta la cosmologia della vita».
George: «Ogni cosa è in queste strade. Che cambiano continuamente, perché sono piene di giovani. Vivere in posti marmorei come West London, a South Kensington o Sloane Square, deve essere una noia mortale. Ora però con Gilbert usciamo di meno, a parte quando andiamo a pranzo o a cena, perché non abbiamo mai cibo in casa. Al massimo ci spingiamo a passeggiare nel cimitero di Bunhill Fields, per ammirare, tra giovani che si baciano, le tombe di Daniel Defoe, John Bunyan e William Blake, l’unica che ha sempre i fiori. L’umanità ancora si basa su canti dell’innocenza e dell’esperienza».
È il vostro processo creativo, per voi che collezionate l’arte di Warhol, van Elk, Cadere?
George: «Per me la creazione artistica è ancora un mistero, come per i poeti».
Gilbert: «Testa, anima e sesso, direi: le tre forze motrici della vita».
George: «Ma recuperiamo molta ispirazione dalla televisione e dai giornali, o dalle volpi che alle 3 di notte vengono a mangiare i resti dei takeaway abbandonati in strada. Per esempio, ci piace vedere la serie tv americanaLaw & Order: mi ricorda quei grossi e romantici poliziotti neri degli anni Settanta».
Gilbert: «Ah, l’America. Il nostro successo iniziò anche lì, a New York. A Manhattan ancora non c’erano le gallerie di oggi. Anzi, non c’era praticamente niente. Ma conoscemmo pionieri come l’italo-americano Leo Castelli con la sua galleria al secondo piano del 420 di West Broadway. L’ex moglie Ileana Sonnabend ne aprì un’altra al terzo piano: la inaugurò con una nostra performance. Prima di Koons, Christo, Baselitz, Acconci e Kounellis».
George: «A proposito di italiani, ricordi anche il gallerista Lucio Amelio a Napoli? Napoli è la mia città preferita dopo Londra».
Perché?
George: «Perché come Londra è viva, caotica e piena di giovani. Altre città sono noiose, penso alla Germania ma anche alla stessa New York. Madrid invece mi piace, ha uno dei miei ristoranti preferiti, El Lando».
Quale fu la scintilla che vi ha uniti per sempre?
Gilbert: «Appena finiti gli studi, abbiamo capito che non potevamo fare a meno l’uno dell’altro. Nella vita ma anche come artisti. Siamo diventati una composizione vivente. Lì ho compreso che cosa sia il destino».
George: «Allora ci lanciammo con leSinging Sculptures: di lì si è stretto il nostro legame perpetuo. Molti pensavano che non saremmo durati. Poveri illusi».
Qual è stato il segreto della vostra inscalfibile unione?
George: «La reazione a chi fuori ci voleva divisi. Siamo sempre stati coscienti dei nostri nemici».
Gilbert: «Ma anche la vocazione comune di offrire un’arte per tutti: umanista, antiestetica, emozionale. Morale ma anche immorale. Far emergere il moralismo dai libertini e la trasgressione dai moralisti».
Senza mai rinunciare alla tecnologia.
Gilbert: «Esatto. Per noi è fantastica, oramai facciamo tutto al computer, da soli. Il nostro assistente Yigang, che portammo a Londra dopo che ci fece da cicerone in Cina nel 1993, si occupa della parte amministrativa e logistica».
George: «Il nostro segreto è che cerchiamo di creare sempre qualcosa di nuovo. Non abbiamo mai raggiunto l’appagamento artistico. Per noi ogni giorno è come gli inizi nel 1967. Rispondo allo stesso modo quando qualcuno ci chiede “se siamo ancora ribelli”».
Anche David Hockney, altro colosso dell’arte della vostra generazione, è devoto alla tecnologia.
George: «David ama la tecnologia, noi la usiamo. Lui ci gioca, noi produciamo. Questa è la differenza».
Ma vi vedete ogni tanto?
Gilbert: «L’ultima volta 5-6 anni fa, dopo la presentazione di una mostra. Ci portò a mangiare a Chinatown. Però ci
sentiamo, siamo sempre stati buoni amici».
George: «Ma alle mostre e allereception non andiamo più».
George: «Non vogliamo essere contaminati, vogliamo essere liberi. Da giovani ci divertivamo. Oggi abbiamo pochi amici nell’arte. Non ci va più di stare con gente che non ci piace, c’è troppo gossip. E poi c’è poco da imparare attualmente: non c’è alcuna ispirazione da trarre».
Gilbert: «Ci sono troppe mostre, troppi artisti oggi, difficile fare filtro. Ai nostri tempi c’erano meno di dieci gallerie per risaltare. Almeno oggi i giovani artisti, che tra l’altro ci scrivono moltissimo, non possono lamentarsi. Hanno molte più occasioni di raggiungere il pubblico. Anche se devono essere politicamente corretti e basarsi sempre meno sulle persone reali».
George: «Già, i musei oramai sono flessi su questa ideologiawoke, che è anche il motivo per cui apriamo una nostra fondazione».
Spieghiamo, “woke”: per i critici, “eccessivamente sensibili ai temi di inclusività e rispetto delle minoranze”.
Siete stati attaccati da giovani artisti per esservi espressi contro la rimozione di “statue razziste”.
George: «Quando decenni fa avevamo persone nere nelle nostre opere, i giornalisti ci chiedevano: “Perché?”. Ora invece ci accusano: “Perché non lo fate?”. Purtroppo l’arte viene sempre più politicizzata ai piani alti. Mentre invece è una forza della natura da non sottomettere».
Gilbert: «E così la libertà di espressione, che vogliono basata su astrazioni e non sulle persone».
George: «Gli arroganti credono che il mondo libero sia stato forgiato da soldati e politici. Invece è stato creato dalla cultura. Provate ad andare in giro per il mondo a chiedere se conoscono di più un politico inglese o i Beatles, Charles Dickens e la Swinging London…».
Gilbert: «Senza arte, i pensieri e i sentimenti resteranno vacui, per sempre».
George: «Ricordo da bambino quando, negli anni ’50, lessi le lettere di Vincent Van Gogh. Dopo che era morto suicida, alcuni giornalisti andarono ad Auvers-sur-Oise per chiedere che tipo fosse. Una signora e altri paesani risposero: “Era una persona orrenda”. «Ma poi guardi le opere di Van Gogh – ricorda George mentre gli scappa una lacrima giù per il viso – ed ecco che la tua mente si apre. È l’infinito potere dell’arte».