Tuttolibri, 28 gennaio 2023
Intervita a Jeanette Winterson
Da alcuni anni Jeanette Winterson, che in molti conosciamo per quelle bombe che furono Non ci sono solo le arance (1985) e Perché essere felice quando puoi essere normale? (2012) dove, a quasi 30 anni di distanza, riracconta sostanzialmente la stessa storia – la propria: adottata da una coppia di pentecostali nell’Inghilterra del nord-ovest, cresce per diventare missionaria, poi capisce di essere omosessuale e la famiglia la ripudia -, ha una nuova, potente ossessione. E come capita tra scrittori e ossessioni, a scapparci è quasi sempre un libro, in questo caso due, perché il romanzo Frankissstein del 2019 è da considerarsi a tutti gli effetti il precursore dei saggi contenuti in 12 Bytes.
Tecnologia, intelligenza artificiale, robotica – in parole dolci, tentativi di tracciare il futuro: ecco cosa ossessiona Winterson, che raggiungo, tramite video, nella veranda della sua casa nelle Cotswolds: «Dopo avere letto un bel po’ di riviste e libri scientifici, ero giunta a una conclusione: per potere guardare meglio avanti avrei dovuto rispondere prima alla domanda “come siamo arrivati fin qui?”. Questo libro è il risultato di quella ricerca».
Jeanette, come mai proprio l’intelligenza artificiale (IA)?
«Da cittadini di questo mondo, non possiamo permetterci di non avere una conoscenza pratica dell’IA, ovvero di ciò che si nasconde dietro la tecnologia. Non possiamo limitarci a pensare: “Beh, finché posso andare sulla mia pagina Facebook, scrivere le mie email, fare la mia call con Zoom, saranno gli altri a risolvere certi problemi"».
Vuole dire che, se anche noi non ci occupiamo di lei, sarà lei prima o poi a occuparsi di noi?
«Esatto. Per questo dobbiamo conoscerla. Quando ho iniziato a informarmi, avevo chiara una cosa: a controllarla erano quelle stesse big tech della Silicon Valley che controllano anche tutta la tecnologia che usiamo ogni giorno. Un potere gigantesco. Il problema è che la maggior parte dei libri che parlano di queste cose sono troppo complicati, perciò ho pensato che avrei potuto scriverne uno io, sperando di far venire voglia al lettore comune di saperne di più».
Come siamo arrivati fin qui? Lei parte dalla Rivoluzione industriale…
«Prima di allora, per quanto poveri o ricchi si fosse, d’inverno si soffriva tutti il freddo perché per scaldarsi c’era solo il fuoco a legna. La società era più equa perché tutti condividevano le stesse cose. L’Era delle Macchine avrebbe potuto significare: bene, produciamo più beni e, quindi, possiamo riposare di più. Invece, abbiamo deciso di abbassare i salari ai più e far guadagnare molti soldi a pochi, e da allora questo è stato il paradigma. Duecentocinquanta anni dopo, viviamo nella società più diseguale e nel mondo più in pericolo che noi, come specie umana, abbiamo mai visto: crisi climatica, disordini sociali, potere concentrato nelle mani di pochissimi».
… e da Mary Shelley, l’autrice di Frankenstein.
«Sua è stata la folle visione di riuscire a mettere insieme una creatura non umana, fatta da parti di corpi diversi, e prevedere – in un’epoca in cui si scriveva a lume di candela – che l’attore dominante di quel mondo nuovo sarebbe stata l’elettricità. Che è esattamente quello che stiamo facendo oggi, con la costruzione di mini-cervelli e, presto, con un nuovo tipo di intelligenza».
Ha paura della morte?
«Al momento ne ho di più del declino, ma faccio il possibile per mantenermi in buone condizioni: esercizio fisico tutti i giorni, un’ottima dieta, non sono in sovrappeso, non fumo, ho una vita interessante e non troppo stressante. So di essere fortunata. Perciò non mi interessa dovere morire, mi interessa di più pensare di aver fatto qualcosa».
Come vorrebbe essere ricordata?
«Sono un’appassionata della vita della mente, che si alimenta attraverso l’arte. Riuscire a dare un contributo sotto questo punto di vista è tutto quello che vorrei. Non ho bisogno di avere una targa, mi interessa solo il presente. Ora è il momento in cui posso fare qualcosa, quindi devo fare qualcosa».
Nel libro parla di crioconservazione. La prenderebbe in considerazione?
«No, perché come tecnologia è fuori moda. Siamo già alla stampa 3D di organi umani, una cosa che trovo incredibile: potremo iniziare a sostituire parti di noi stessi come faremmo con la nostra auto».
Le piacciono i robot, ma non quelli sessuali, i sexbot. Perché?
«Mi piace l’idea di inserire un sistema operativo in una forma fisica che possa diventare, per esempio, un compagno per una nonna o un bambino. Sarebbe fantastico, perché il robot non si spazientirà nell’ascoltare le stesse cose ripetute ogni dieci minuti o nello spiegare più volte lo stesso esercizio di matematica. Il problema dei sexbot, invece, è che vengono venduti come una tecnologia nuova e divertente, ma sono costruiti sulle vecchie piattaforme del potere di genere: sono sempre femminili e replicano una versione della donna anni ’50, sia nell’aspetto che nel comportamento sottomesso e compiacente. Il rischio qual è? Di scatenare un sessismo ancora peggiore nella società, dove invece ci sono le donne vere. Un mio sogno è che arrivino delle hacker donne e che ricodifichino dei sexbot che diano risposte come: “Fanculo, stasera non farò un bel niente con te"».
Che cosa pensa del metaverso di Zuckerberg?
«Da un lato mi piace molto l’idea di un metaverso che offra opportunità interessanti come, per esempio, quella di sperimentare “sé” diversi. Una ragazza vorrebbe essere un ragazzo? Va nel metaverso, un luogo dove può sentirsi al sicuro senza la paura di venire aggredita, e vede come si sente. Dall’altro lato, però, penso che Zuckerberg e Facebook siano responsabili di moltissimi danni, tra cui l’avere spinto deliberatamente, per interesse, i discorsi d’odio e i contenuti disgustosi in cima ai feed».
E di Elon Musk?
«Che le persone dovrebbero smettere di dirgli che è un fottuto genio. Può anche andare in giro con le auto elettriche o nello spazio, ma se non ha sentimenti umani tutto quello non gli servirà a nulla. Non salverà il mondo così. Da quando poi ha preso il controllo di Twitter abbiamo finalmente visto chi è veramente: un uomo ossessionato dal potere, uno che pensa che chiunque non voglia lavorare 16 ore al giorno sia un perdente. Beh, sa una cosa? Noi vogliamo amare i nostri figli, fare delle passeggiate, leggere un libro e curare il nostro giardino. Questo non ci rende perdenti, ma grandi esseri umani».
In questo nuovo mondo chi scriverà i romanzi?
«Non mi interessa chi sarà a farlo. Mi piace l’idea delle collaborazioni e trovo affascinante il fatto di potere inserire un gran numero di dati e vedere che cosa l’IA tirerà fuori. Magari un giorno riuscirà a fare anche quello che gli umani sanno fare meglio, cioè creare connessioni sorprendenti, essere creativi. Ed è proprio questo a preoccuparmi: il fatto che ai nostri giovani non stiamo insegnando a esserlo. Tutti non fanno che parlare di ingegneria e materie scientifiche e, come se non bastasse, l’attuale sistema educativo, se non fai parte di un’élite, non ti permette di esplorare la tua creatività. In questo modo, perdendo il nostro unico asso nella manica, come esseri umani ci stiamo condannando a diventare superflui».
Lei propone di sostituire il cartesiano “penso dunque sono” con “amo dunque sono”.
«Quando i sistemi saranno in grado anche di pensare, e non solo di elaborare dei dati, che cosa resterà all’essere umano? Vede, i problemi del mondo non li risolveranno né le menti più intelligenti né le invenzioni più brillanti. Potrebbe riuscirci solo qualcuno che dicesse: “Non combatterò più contro mio fratello. Non andrò nel suo Paese a bombardarlo. Accetto che lui sia umano come lo sono io”. Questo io lo chiamo amore. L’unica cosa che abbiamo a disposizione per andare avanti è la capacità di compassione e di immaginazione. E in qualche modo dovremo insegnarlo anche ai robot che verranno». —