Tuttolibri, 28 gennaio 2023
L’altra faccia di Gogol’
«Dispongo di non seppellire il mio corpo finché non compaiano chiari segni di decomposizione…». Nikolaj Vasilevi? Gogol’, uno degli scrittori più geniali della letteratura russa, nato in Ucraina nel 1809, era ossessionato dall’idea di essere sepolto vivo. «Lo ricordo qui», scrive nel Testamento del 1845, «perché anche durante la mia malattia ho avuto momenti di intorpidimento e il mio cuore e il mio polso hanno smesso di battere…». C’è una morte apparente, che fa seppellire i vivi; c’è una morte spirituale, che fa apparire vive persone interiormente morte.
Le anime morte, il capolavoro di Gogol’ (1842), è costruito su un paradosso che è spirituale prima di essere sociale, politico, culturale. Le «anime morte» sono i servi della gleba deceduti ma non ancora cancellati dai registri erariali, per i quali il proprietario continua a pagare le tasse. La surreale compravendita di «anime morte», messa in moto dall’antieroe del romanzo, Pavel Ivanovi? ?i?ikov, «liscia, gradevole sfera che contiene il nulla» (Serena Vitale), è una truffa ai danni dello stato e dell’umanità. Come nei quadri di Bosch, mostruose figure proliferano sulla tavolozza narrativa gogoliana, che apre uno scorcio sull’abissale inconsistenza dell’essere: il vuoto, la vanità di tutte le cose, la menzogna sociale e la mistificazione morale. A un livello più profondo, il «poema» gogoliano è un viaggio dantesco nell’oltretomba della condizione umana, una simbolica discesa agli inferi, come la definiva il teologo ortodosso Paul Evdokimov, che accostava Gogol’ a Dostoevskij quali esploratori degli abissi del male.
Il grande critico democratico Vissarion Belinskij salutò nelle Anime morte una coraggiosa denuncia delle storture della realtà russa, mentre slavofili e occidentalisti si contendevano l’opera. Gogol’ tuttavia attraversava una profonda crisi spirituale e creativa. Alla cantica infernale della prima parte dovevano seguire un purgatorio e un paradiso con la redenzione di ?i?ikov. Ma se gli riusciva benissimo la rappresentazione della bassezza, della banalità sciatta e trascurata del male, era impotente a descrivere l’armonia del bene. Per due volte brucia il manoscritto del suo poema. «Il secondo volume delle Anime morte è stato bruciato perché doveva esserlo… Ho riconosciuto che quello che avevo ritenuto armonia non era che caos», confessa in una lettera.
La tragedia di Gogol’, secondo Nikolaj Berdjaev, consisteva nel non saper vedere e rappresentare l’immagine umana nella sua bellezza, quale immagine di Dio. Questo lo tormentava. Gli anni ’40 sono per Gogol’ un doloroso percorso per ritrovare sé stesso: rimette in discussione la sua vocazione di scrittore, sogna di farsi monaco, frequenta Optina Pustyn’, va in pellegrinaggio in Terra Santa, trascorre lunghi soggiorni in Italia. Legge Giovanni Climaco e i padri della chiesa, commenta la Divina Liturgia ortodossa, si sottopone a estenuanti digiuni. «Cercate di vedere in me il cristiano e l’uomo piuttosto che il letterato», scrive alla madre nel 1844. I testi che documentano questa svolta religiosa sono ora presentati in traduzione italiana con testo russo a fronte in un volumetto curato da Lucio Coco, patrologo e studioso di Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, Evagrio Pontico e Basilio Magno (Nikolaj Vasilevi? Gogol’, Non siate anime morte. Scritti spirituali inediti). Come spiega il curatore ed esperto traduttore, «si tratta di un gruppo di opere di argomento morale e religioso dove lo scrittore descrive in maniera piuttosto analitica le passioni che infiammano e ottundono l’animo umano e ne fornisce una lettura incentrata sulla morale cristiana». I titoli sono significativi: Sull’ira e la calma, Regola di vita nel mondo, Su quelle disposizioni spirituali e sui nostri difetti che creano turbamento in noi e ci impediscono di giungere a una condizione di calma. Conclude questa essenziale antologia il Testamento del 1845, che lo scrittore aveva incluso nell’ultima sua opera, i Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici (1847). Coco attribuisce l’ostilità riservata ai Brani scelti allo «scandalo» della «questione di Dio». In realtà, ciò che sollevò l’indignazione della critica democratica era l’apologia della servitù della gleba: «Raduna innanzitutto i contadini e spiega loro che cosa sei tu e che cosa sono loro. Sei il loro padrone… mostrarglielo subito nel Vangelo, affinché lo vedano tutti senza eccezione». Belinskij reagì appassionatamente: «Predicatore dello knut, apostolo dell’ignoranza, propugnatore dell’oscurantismo e della reazione, panegirista dei costumi tatari: che cosa sta facendo!… Che lei fondi un simile insegnamento sulla chiesa ortodossa, posso ancora capirlo: ma perché ci ha messo di mezzo anche Cristo? Egli per primo ha annunciato agli uomini la dottrina della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza e con il martirio ha sigillato… la verità del suo insegnamento». Cristo è l’uomo perfettamente bello che Gogol’ non riesce a rappresentare. La Lettera a Gogol’ di Belinskij non fu pubblicata perché non poteva esserlo. Ma circolò per tutta la Russia. Per averla letta nel circolo di Petraševskij, nel 1849 Dostoevskij fu condannato alla pena di morte, commutata davanti al plotone di esecuzione in bagno penale.
Gogol’ rimase turbato dall’attacco di Belinskij. Sentì di non essere stato compreso: «Come io mi sento concentrato troppo in me stesso, così anche voi vi siete troppo disperso». Indifferente al dibattito che infuria attorno a lui, Gogol’ si china sulla realtà spirituale. Scrive su come combattere l’ira («è assai difficile vincerla per chi non sospetta in sé questo peccato»), sull’accidia che «genera la disperazione, che è un omicidio spirituale»; sulla gratitudine («il ringraziamento ha l’effetto che per noi diventino leggere la lotta e la vittoria sulle passioni»; «Vi ringrazio molto, amici miei. Voi avete reso molto bella la mia vita»), sull’amore («Dio è amore e non uno spirito di oscurità. Dove c’è luce, lì c’è anche pace»), compone preghiere che echeggiano l’Imitazione di Cristo («Signore, fa che io non riponga la speranza in nessuno se non in te solo»). Nonostante il tormento interiore, Gogol’ sembra pacificarsi. A chi gli chiede se si senta russo o ucraino, risponde: «Io stesso non so qual anima ho, se ucraina o russa. Entrambe le nature sono troppo generosamente dotate da Dio e, come di proposito, ognuna di esse contiene separatamente qualcosa in sé che è assente nell’altra, affinché, fuse insieme, formino qualcosa di perfetto nell’umanità». Parole, queste, che oggi potrebbero essere una resurrezione!
La notte dell’11 febbraio 1852, dieci giorni prima di morire, brucia la seconda parte delle Anime morte. Con mano incerta traccia su piccoli fogli le sue ultime parole: «Siate delle anime vive e non delle anime morte. Non c’è altra porta se non quella indicata da Gesù Cristo». Sì, oggi più di ieri queste opere della tradizione russa ci appaiono necessarie per l’ispirazione di un umanesimo veramente europeo. —