Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  gennaio 28 Sabato calendario

Ritatto di Anna Politkovskaja

Capita talvolta di immaginare la propria morte. Stesi su un letto d’ospedale, soli o circondati dai propri cari, morti per una malattia, o un incidente. Capita di immaginare la propria morte e cacciare via il pensiero come si cacciano via le mosche d’estate. Anna Politkovskaja non poteva allontanarne il pensiero perché la morte la seguiva alle calcagna, era sopravvissuta alle minacce, a una cattura, a un tentativo di avvelenamento. Il pensiero della fine era con lei sempre.
Anna Politkovskaja conosceva la paura come la conoscono gli esseri umani coraggiosi, affrontandola con la solitudine cui spesso sono destinati mentre gli altri assistono in silenzio alla loro morte annunciata.
Così è stata la sua, giornalista che aveva lavorato nell’unico modo che riteneva possibile, in mezzo alla gente e dalla parte di nessuno, per questo invisa al Cremlino, ai signori della guerra ceceni, e all’altro giornalismo, quello prono, condiscendente.
Anna Politkovskaja affrontava la possibilità di essere uccisa con una lucidità mista di stoicismo e scaramanzia: «Dicono che se parli di un disastro puoi farlo accadere, ecco perché non dico mai ad alta voce ciò di cui ho più paura, solo così non accadrà» aveva detto in una delle ultime interviste video che la ritraggono al lavoro nella redazione del suo giornale, il bisettimanale indipendente Novaya Gazeta.
A metà degli anni Duemila aveva compiuto almeno cinquanta viaggi in Cecenia, la guerra che aveva ferito e piegato il paese era diventata il suo mandato, la sua missione morale. Anna Politkovskaja arrivava dove gli altri si fermavano, continuava a partire quando per gli altri non c’era più nulla da dire, sfidava gli ostacoli del potere per concedere ai lettori il lusso e la responsabilità della verità. Lo ha fatto per anni, parlando con lealtà ai civili e dei civili, ascoltando le vittime innocenti, ascoltando i sopravvissuti che timidi e impauriti chiedevano giustizia, lo ha fatto per anni parlando con la medesima lealtà con i leader politici, i signori della guerra, i portaborse di Putin in Cecenia.
Lo ha fatto fino al pomeriggio del 7 ottobre 2006, quando tornata dal Ramstore, centro commerciale a Mosca dove si era recata per fare la spesa per sua figlia Vera che aspettava il primo figlio, ha trovato nelle scale di casa, il condominio a Lesnaya Street, il suo assassino che conosceva il codice necessario per introdursi nel palazzo e l’aspettava lì, dopo averla pedinata per giorni. Le immagini delle telecamere di sorveglianza lo mostrano mentre esce, camuffato da un berretto da baseball dopo aver sparato ad Anna Politkovskaja con la sua pistola silenziata, abbandonata lì, accanto al corpo della donna.
Non l’ha protetta la stima internazionale che aveva raccolto, non l’ha protetta la verità scritta sillaba dopo sillaba nei cinquecento articoli firmati per Novaya Gazeta, né l’hanno protetta i riconoscimenti, il premio Osce per il giornalismo e la democrazia, il Global Award di Amnesty International per il giornalismo in difesa dei diritti umani. Tutti elementi che la rendevano una donna accolta nel resto del mondo, ma vulnerabile entro i confini di un paese, il suo, che riconosceva sempre meno.
Era sopravvissuta a un avvelenamento sul volo che da Mosca avrebbe dovuto condurla dal leader della resistenza cecena ed ex presidente della Cecenia Aslan Maskhadov, per esortarlo a raggiungere Beslan in modo da convincere i sequestratori del teatro a rinunciare al loro assedio. Non le riuscì perché la tazza di tè che le offrirono su quel volo conteneva il veleno che l’ha fatta finire in un coma durato giorni. Accusata di spionaggio in Cecenia è stata arrestata e picchiata dalle truppe russe, che l’hanno portata via, gettata in una fossa, minacciata di violenza sessuale e sottoposta a una finta esecuzione prima di essere rilasciata. Dopo la cattura scoprì che i soldati del reggimento le avevano rubato tutto, tranne il suo tesserino da giornalista. Il numero 1258. Ha visto morire in pochi anni colleghi a lei vicini, i giornalisti della Novaya Gazeta, Igor Domnikov e Yuri Shchekochikhin, il primo ucciso da un uomo mai identificato, il secondo morto a seguito di una malattia improvvisa e misteriosa, poi Paul Klebnikov, direttore dell’edizione russa di Forbes, che aveva denunciato la corruzione in Russia e in Cecenia, a cui i sicari hanno sparato di fronte all’ufficio.
Anna Politkovskaja sapeva, insomma, che la morte le camminava alle spalle, come l’assassino che l’ha uccisa il 7 ottobre 2006, giorno del compleanno di Vladimir Putin. Lo sapevano i suoi figli, Ilya e Vera. Lo sapeva la sua famiglia, i suoi colleghi. Lo sapeva tutto il mondo che di fronte alla tragedia cecena era stato a guardare.
Perciò ogni volta che qualcuno le chiedeva uno dei «perché» che di solito si domanda a un giornalista in guerra: perché vai? perché non resti a casa? perché se è così rischioso? perché se ti minacciano di morte? lei rispondeva che in quanto contemporanea della guerra ne sarebbe stata «responsabile». È questa parola, responsabilità, che ha inchiodato il destino di Anna Politkovskaja alla realtà, all’osservazione più nobile e partecipata del mestiere di giornalista, a un ascolto in purezza, senza pregiudizi, senza sentenze emesse in anticipo.
La lucida solidità dello stare dove si deve, in mezzo ai civili bisognosi d’ascolto e poi alla ricerca dei presunti carnefici per scovarne ombre ma anche cercarne il residuo di umanità. Poco prima di essere uccisa stava prendendo appunti per un saggio sul giornalismo. In uno degli ultimi scritti ritrovati sul suo computer, dal titolo Is Journalism Worth Dying For? (Vale la pena morire per il giornalismo?) nell’incipit definiva koverny, ossia «pagliacci», quasi tutti i giornalisti russi di ultima generazione.5
Koverny erano per lei i giornalisti russi con cui doveva fare i conti, «il tendone di koverny il cui compito è intrattenere il pubblico» e glorificare lo status quo. Era la moralità giornalistica incoraggiata da Putin e dai suoi epigoni, i giornalisti che dovevano essere dalla parte del potere: «Chi non è con noi è contro di noi. Coloro che sono contro di noi devono essere distrutti», ebbe a dire in un’intervista Ramzan Kadyrov, parlando dei media in Russia.
Anna Politkvoskjya non era mai stata «dalla parte di nessuno». Si era però opposta con fermezza alla «democrazia russa tradizionale» locuzione con cui il Cremlino definiva il peculiare regime imposto al paese. Era diventata un paria.
Anche per questo oggi è così importante rileggere Un piccolo angolo d’inferno: perché Anna Politkovskaja ci ha lasciato non solo i resoconti di una guerra ma un manuale di metodo giornalistico che diventa, oggi, la cronaca di un avvertimento inascoltato: questa è la prassi per Putin. È sempre stato così, così sempre sarà.
Il metodo Putin, ovvero: Grozny
Molti hanno paragonato l’invasione russa dell’Ucraina alla seconda guerra cecena e in effetti le guerre in Cecenia raccontate da Anna Politkovskaja possono essere lette come l’avvertimento di quello che sarebbe accaduto altrove, l’allarme inascoltato di una Cassandra che tanto più denunciava e descriveva gli orrori che si consumavano nella piccola repubblica, quanto più si sentiva allontanata, messa ai margini da una società che rifiutava di vedere. Leggere oggi Un piccolo angolo d’inferno significa ricevere un dono e insieme un monito. Siamo qui, ancora, per spiegarvi quello che non avevate capito – sembrano dirci le pagine di queste corrispondenze dal fronte ceceno – siamo qui, ancora, per la vostra inazione.
Per capire l’attualità, tragica, del testo, occorre riavvolgere il nastro di tre decadi.
Mentre l’Unione Sovietica si disgregava, nel 1991, la Cecenia iniziava a lottare per l’indipendenza, una richiesta di autonomia prevedibilmente mal digerita dal Cremlino che la considerava l’offensiva presunzione di una regione satellite che andava rimessa al proprio posto, cioè sotto il controllo di Mosca. Nel 1994, dopo anni di tensione crescente, le truppe russe furono inviate in Cecenia.
Il generale Pavel Gra?ëv poco prima dell’inizio della guerra disse che avrebbe potuto conquistare Grozny in poche ore con due reggimenti e rovesciarne il leader, Džhochar Dudayev. L’obiettivo dell’operazione militare era chiaro: ripristinare l’ordine costituzionale, disarmare le «bande illegali cecene e smantellare il governo usurpatore».
È con queste premesse che la Russia ha scatenato la prima invasione, prevedendo che il puro potere dimostrativo della sua forza militare avrebbe indotto i ceceni alla resa, ma l’invasione si è rivelata una tragica dimostrazione di incompetenza. Nel giro di poche ore la colonna di mezzi russi è stata annientata dai combattenti ceceni. Quello che doveva essere il rapido rovesciamento della leadership cecena si è trasformato in una disfatta, uno scenario antico, uno scenario attuale.
La Russia di Boris El’cin portò avanti la campagna cecena per due anni, tentando di fiaccare e sconfiggere i miliziani, ma fallì. Nel 1996 firmò un trattato di pace, fece ritirare le truppe e concesse autonomia (non indipendenza formale) alla Repubblica cecena.
Tre anni dopo, con la salita al potere di Putin, tutto cambia. La questione cecena si riapre e, nel tentativo di vendicare l’umiliazione precedente, Mosca conduce una violenta campagna di bombardamenti prendendo il controllo della repubblica separatista in pochi mesi. Il simbolo della guerra di Cecenia diventa Grozny, la capitale rasa al suolo, modello della «strategia del terrore» putiniana.
Grozny viene assediata nel dicembre del 1999 dalle truppe russe e bombardata non solo con artiglieria convenzionale e attacchi aerei ma anche con bombe termobariche la cui devastazione è seconda solo alle armi nucleari: maggiore era la ferocia agita dalle truppe di Mosca, maggiore la pressione sui miliziani separatisti che restavano trincerati nel centro città, insieme a quarantamila civili intrappolati.
L’esercito russo ha invaso Grozny due volte e due volte l’ha rasa al suolo. Non capitava da decenni che un centro urbano fosse colpito con tale violenza, una brutalità tale che nel 2003 le Nazioni Unite l’hanno definita la città più distrutta al mondo, rendendola la parte per il tutto di un modus operandi.
La città dalla metà degli anni Novanta è la rappresentazione dello schema russo per imporre il controllo sulle regioni periferiche dell’ex impero e costringerle alla sottomissione o per supportare leader amici, come Bashar al-Assad. Dopo mesi di intensi bombardamenti, le truppe russe raggiunsero il centro della capitale nel febbraio del 2000, dichiarando la città liberata dai ribelli. Un mese dopo Vladimir Putin, trionfante, volò in Cecenia per celebrare la vittoria e insediare al potere l’alleato Achmat Kadyrov, mufti durante il periodo prebellico dell’indipendenza de facto cecena nel 1991-1994, e padre di Ramzan Kadyrov, che gli è succeduto alla guida del paese.
Non stupisce che Ramzan Kadyrov, oggi, guidi le milizie che supportano i russi in Ucraina, è la storia che fa il giro, le mani alleate che tornano a stringersi e ricambiarsi favori: negli anni Novanta il progetto era riportare la Cecenia sotto il controllo russo, nel 2022 il progetto è riportare l’Ucraina sotto la sfera di influenza di Mosca.
Come è stato a Grozny così è stato ad Aleppo nel 2016 e così è nelle città ucraine del 2022, è la strategia della terra bruciata, distruggere qualsiasi struttura che permetta la sopravvivenza della città che si vuole conquistare. Significa stabilire il valore strategico della forza e delle brutalità, come ha scritto Mark Galeotti, esperto di sicurezza russa, su Foreign Policy nel 2016, mentre con la stessa ferocia usata su Grozny, le forze russe aiutavano il regime alleato di Bashar al-Assad a far cadere la martoriata Aleppo.
Valore strategico della brutalità significa fiaccare i civili per portarli alla resa, distruggere città, villaggi e centri urbani, come passo che precede la vittoria.
Mentre scriviamo l’Europa vive gli effetti dell’invasione russa in Ucraina, cominciata il 24 febbraio 2022.
L’Ucraina non è la Cecenia, un piccolo territorio di appena un milione di persone nel Caucaso settentrionale, l’Ucraina è una nazione di oltre 44 milioni di abitanti che ha un esercito di duecentomila soldati formati, addestrati e ora armati dagli alleati occidentali. Ma vale la pena rileggere oggi le dense pagine di Anna Politkovskaja perché quella guerra è stata la prima in cui Putin ha sviluppato e messo in atto un metodo per affermare il suo dominio, la strategia della terra bruciata: l’uso dell’artiglieria pesante sulle aree residenziali, l’attacco indiscriminato dei centri urbani, il rapimento e l’incarcerazione di leader e giornalisti locali e la loro sostituzione con leali collaborazionisti, l’utilizzo dei rifugiati e della fame come armi, rendono il caso ceceno il modello su cui la Russia di Putin ha pianificato la sua strategia in ogni scenario in cui è stata coinvolta negli anni successivi alla seconda guerra cecena, poco importava allora così come poco importa oggi, il costo umano di questa strategia.
Il costo umano era quello che interessava a Anna Politkovskaja, i corridoi umanitari con Grozny alle spalle che diventavano obiettivi militari, i suoi incontri con i ragazzini nati in guerra e cresciuti in guerra che hanno sempre solo sentito parlare di armi e violenza, le esecuzioni del villaggio di Makheti, dove le «donne sedute intorno al tavolo non piangono, anche se vorrebbero perché hanno tutti finito le lacrime da un pezzo», l’umiliazione del sostegno G4, gli aiuti umanitari del governo russo destinati agli sfollati, oltraggiati due volte, prima privati della loro vita e poi da loro costretti a ricevere la miseria di un pacco alimentare.
Grozny 2000, o Mariupol’ 2022?
Nel 1994, durante la prima guerra, il mondo era moralmente schierato dalla parte dei ceceni perché poteva vedere cosa accadeva nel paese. I giornalisti internazionali erano accolti e facilitati nel loro lavoro, potevano descrivere le atrocità del conflitto, le conseguenze sulla popolazione civile e fare in modo di rendere il giornalismo uno strumento di pressione sui governi affinché spingessero la Russia a un confronto, un negoziato. Nel 1999, con Putin al Cremlino e Grozny che cade, i giornalisti non hanno più avuto accesso in Cecenia, si è fatto più stretto il controllo su giornali e canali televisivi russi così che i crimini commessi dalle truppe russe restassero, semplicemente, inosservati. Così sarebbe stato facile imporre la versione russa della guerra, la propaganda che demonizzava i ceceni e spiegava l’operazione militare come un passaggio necessario per sconfiggere i miliziani, coloro che il Cremlino definiva terroristi di matrice jihadista. In questo contesto di copertura mediatica inesistente Anna Politkovskaja è stata uno dei pochissimi giornalisti a continuare a raccontare il conflitto ceceno. Tornando ogni volta più segnata, coi taccuini pieni di orrore.
In uno dei suoi viaggi, Anna Politkovskaja aveva incontrato una giovane poetessa, Viktoria Aleksandrovna Jura. Vika, questo il suo diminutivo, aveva sposato Aleksandr Georgevic il 6 aprile del 2001. Erano sposati da sei mesi quando li ha incontrati, a Grozny, allora in città non c’era niente da mangiare, Vika e Aleksandr placavano la fame col tè, poi una volta finito il tè Vika si alzava da tavola e continuava ad appuntare la guerra sul taccuino. Un giorno scrisse «Capisci eppure non riesci a sentirlo. Il dolore di un altro, anche se amaro, non fa male».
È questo, in fondo, che Anna Politkovskaja ha voluto dirci con questo libro. Che la guerra non finisce quando smettiamo di occuparcene, al contrario torna sempre, e i protagonisti spesso sono esseri umani abbrutiti dalla fame, snaturati, nella loro versione peggiore. Ci ha detto che le responsabilità dei conflitti sono dei leader politici, che esiste un modello Putin e dobbiamo essere in grado di vederlo per poterlo prevedere, ma ci ha fatto anche delle domande. La prima: chi sono gli altri colpevoli? Solo i governi o anche l’inazione, il cinismo dell’opinione pubblica che non riesce più a sentire, davvero, il dolore di un altro?
All’inizio del 2000 Anna Politkovskaja aveva scritto su Novaya Gazeta: «Ho pensato che forse non avrei dovuto scrivere di tutto ciò che vedo. Forse dovrei risparmiarvi tutti, in modo che possiate continuare a godervi la vita pensando che l’esercito e il nuovo governo stiano facendo la cosa giusta nel Caucaso settentrionale. Forse. Ma so per certo che quando ci sveglieremo sarà troppo tardi».
Per lei, Anna Politkovskaja, la testimone a cui la guerra cecena ha spento il sorriso, è stato tardi, ma non lo è per la sua lezione che queste pagine destinano al futuro. —