Avvenire, 28 gennaio 2023
Vivere a Bakmuth
Vivono in sedici in una grande cantina, nel piano interrato sotto il negozio dove lei lavorava. «È come se ci fosse sempre il terremoto qui, boati di continuo, li sentiamo fin sotto terra. E non c’è luce, non c’è acqua, non c’è niente». Masha ha cinquant’anni, molti dei quali passati in Italia a lavorare come assistente domiciliare. Dà notizie di sé da Bakhmut, la sua città, dopo tre mesi in cui non si faceva sentire. «La settimana appena trascorsa è stata anche peggio del solito, negli ultimi giorni non è mai stato possibile uscire all’aria aperta, fino a questo momento».
Una chiamata su Whatsapp da un luogo in cui il segnale Internet è attivo, pochi minuti, e l’apprensione di fornire i dettagli della vita che conduce in questa città in prima linea, nel mezzo della più feroce e prolungata battaglia dell’Ucraina orientale. Le forze russe e i mercenari di Wagner sembrano decisi (da mesi) a prendere Bakhmut a tutti i costi. Sarebbe la vittoria più significativa di Mosca dopo il lungo stallo di posizioni sul terreno. «Qui con noi nello scantinato ci sono due ragazzine di 14 e 17 anni, una nonna di 86 anni, un uomo disabile a cui mancano una gamba e una mano e a cui serve sempre assistenza».
Il resto del gruppo è composto da suoi vecchi amici, perché i parenti di Masha sono tutti fuggiti via, le loro abitazioni danneggiate dai combattimenti. «L’appartamento di mia sorella è in un palazzo di nove piani, lei viveva al piano terra. Tutte le finestre sono saltate. Un mese fa le abbiamo coperte con tavole di legno, non so ora in che condizioni siano. Per i vetri infranti dell’abitazione di mia madre, invece, non c’è stato niente da fare, è al terzo piano. Nessuno rischia ad andare su a sistemarle, e comunque lei si è trasferita in un’altra città”. Masha racconta del freddo, e della temperatura che in cantina arriva a dieci gradi. “Abbiamo assemblato un forno a legna di ferro con cui cerchiamo di alzare la temperatura, cuocere il cibo e scaldare secchi di acqua che usiamo nella cabina doccia che abbiamo montato per lavarci, una volta a settimana oppure ogni due, dipende dalle scorte di acqua. Nessuno le distribuisce”.
Masha però è fortunata. Nella casa che ha acquistato sette anni fa con i guadagni del lavoro in Italia, ora disabitata, c’è un pozzo con l’acqua a cinque metri sotto la superficie. “Con una pompa a motore alimentata a benzina facciamo scorte. Riempiamo bottiglie e taniche. Ci andiamo in automobile, io e gli amici che vivono con me, quando però si riesce a farlo». Giù in cantina le giornate sono scandite da diverse attività. «La preparazione dei pasti sul fuoco, per giunta per così tante persone, è lenta. Di cibo ne abbiamo, avevamo fatto provviste, patate, carote, carne in scatola. Quello che portano i volontari non sempre arriva a noi, e quello che riusciamo ad avere non è la parte migliore degli aiuti» dice, senza volere spiegare a chi è rivolta la critica. «Con le ragazze più giovani lavoriamo a maglia, hanno imparato qui, creano calzini, piccoli animali di stoffa, conigli, orsi. Poi leggiamo libri, oppure ci sfidiamo in gruppo con i cruciverba o con i giochi sul cellulare» aggiunge Masha, che poi si scusa, all’aperto fa troppo freddo, vuole rientrare in cantina dove non c’è linea. «Non è quello che vorremmo fare, ma è così che trascorriamo i nostri giorni, è così che facciamo passere questo tempo tanto difficile».