il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2023
I Monuments men italiani
Fino al 2000, nella Biblioteca Vaticana capitava di trovare un anziano studioso, dalle lenti spesse, chino su antiche pergamene: era – sussurravano gli habitués ai più giovani – il nonagenario Giulio Battelli, il decano della paleografia italiana. Nella mostra Arte liberata 1937-1947, alle Scuderie del Quirinale fino al 10 aprile, i giovani di allora trovano il nome di Battelli, accanto a quello di Emilio Lavagnino, su un lasciapassare del Comando Tedesco di Roma del 2 maggio 1944 (un mesetto dopo via Rasella) che autorizza i due a trasferire libri e opere d’arte “da Viterbo-Tuscania a Roma”. Ecco dunque il giovane prof. Battelli spendersi a proprio rischio per salvare dalle bombe pezzi di quel patrimonio cui avrebbe poi dedicato una vita di studi.
Il senso della mostra sta tutto nella riscoperta di questa incredibile generazione di civil servants: non solo i pesi massimi come il funzionario Giulio Carlo Argan, che nel ’43 nasconde casse di opere in Vaticano grazie all’appoggio logistico del cardinal Montini (trent’anni dopo si rincontreranno, l’uno sindaco comunista di Roma e l’altro papa Paolo VI), ma anche gli oscuri funzionari che in ogni parte d’Italia operarono sin da subito per “salvare il salvabile”. Con meno grancassa rispetto alle gesta dei più blasonati Monuments Men, ma con un più profondo senso di appartenenza tra gli uomini e l’arte. Ne fanno fede i loro diari, le lettere, i dispacci. E le storie di somme soprintendenti come Jole Bovio Marconi a Palermo (salvò le metope di Selinunte, ma anche il leggiadro trittico di Mabuse da Palazzo Abatellis, esposto in mostra), Palma Bucarelli alla Gnam, o Fernanda Wittgens a Milano.
Il curatore Luigi Gallo si concentra sull’Italia centrale, dove operarono i soprintendenti Pasquale Rotondi e Lavagnino. Fu Rotondi a dormire con la Tempesta di Giorgione in camera da letto, quando nel palazzo di Carpegna dov’era nascosta arrivarono i Tedeschi, che nelle casse cercavano armi e non si accorsero dei tesori… Fu Lavagnino a evacuare in Vaticano i capolavori di Sutri, Vetralla, Fondi… e poi le casse del Centro-Nord prima custodite a Urbino e Genazzano, nell’inverno ’43-’44, quando tutto sembrava perduto: tra i suoi eroici viaggi notturni in Topolino, descritti nel libro della figlia Alessandra (Un inverno, Sellerio 2006), c’è proprio anche quello con Battelli del 2 maggio, iniziato alle 4 “perché ormai è bene evitare la luce buona per viaggiare in certe zone”. I villaggi spettrali, i bengala incombenti, la fame e una Viterbo da salvare; gli editti del governo di Salò da schivare, ma anche (andava ricordato!) il tenente tedesco Scheibert, la cui complicità fu vitale. Appassionanti i salvataggi dell’ultimo minuto: nascondigli di opere a Marzabotto, a Montecassino (Bruno Molajoli vi portò i tesori di Napoli, tra cui la Danae di Tiziano), a Subiaco (nel monastero di Santa Scolastica, culla del primo incunabolo d’Italia, finirono migliaia di libri delle biblioteche di Roma), svuotati delle casse pochi giorni prima dell’apocalisse.
I pezzi in mostra svolgono un ruolo di testimonianza, spogliati dei loro valori estetici o tecnici: si poteva dunque evitare di movimentare la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, o il ritratto di Manzoni di Hayez, o tanti capolavori di Fermo, Ascoli o Jesi. Più convincenti i casi in cui l’opera d’arte, con l’aura della sua presenza, fa pendant con l’immagine di una sua fotografia d’epoca a parete: la Madonna del Briosco in precario equilibrio su un vagone diretto in Germania, una grossa tela di Panini presidiata da reclute della Wehrmacht, una Crocifissione di Luca Signorelli (ce ne sono qui ben due) sui prati della Val Badia.
E poi l’inizio e la fine, dedicate al fenomeno parallelo delle spoliazioni tedesche per la tenuta di Göring a Carinhall o per il condendo Museo del Führer a Linz. La Danae di Tiziano finì nel ’44 nella stanza da letto di Göring, e fu resa a Capodimonte solo tre anni dopo per l’intervento di quel discusso ma abilissimo funzionario che fu Rodolfo Siviero: nella foto finale lo si vede seduto in contemplazione del dipinto, il più erotico che ci sia. La splendida copia romana del Discobolo di Mirone, per intercessione di Galeazzo Ciano, fu invece venduta a Hitler, che accoglie il visitatore delle Scuderie nella foto con la statua nella Glyptothek di Monaco nel 1938: l’anno in cui Leni Riefenstahl animò il Discobolo in apertura del film propagandistico Olympia, cangiandolo in dissolvenza nell’atleta Erwin Huber.
La prossima volta che sentirete mercificare i beni culturali come il “petrolio d’Italia”, o un politico appropriarsi dell’arte a fini di parte, o un premier dileggiare i soprintendenti e tagliare l’organico dei musei, ripensate alle vicende narrate in questa mostra, agli ideali e alla levatura dei loro protagonisti. Di gente così, piena di rettitudine e di senso del dovere nei confronti del nostro patrimonio, ce n’è ancora molta, troppo spesso dimenticata o umiliata.